I Veronesi Methodica dal 2009 dispensano il loro talento con un prog metal moderno ed originale. Quattro album, vari ep e singoli e due tour europei condivisi con Queensrÿche e Fates Warning non sono riusciti a convincere un pubblico più ampio, che invece meriterebbero. Il cantante Massimo Piubelli, ci parla dell’ultimo lavoro “Hypocricity” e ci spiega cosa vuol dire essere una band underground ai tempi dei social e dell’Intelligenza Artificiale.
Questo album, è il frutto di un momento di passaggio. Vi siete trovati senza tastierista ed avete deciso di proseguire come quartetto. Pensi che questo episodio abbia cambiato il vostro modo di comporre? E in concerto come fate? In realtà la cosa è stata ancora più complicata, perché oltre al tastierista eravamo rimasti poco prima anche senza il bassista, e quindi ci siamo trovati con due elementi della band da rimpiazzare. Abbiamo deciso infine di concentrarci sulla ricerca di un bassista che facesse al caso nostro, mentre per le tastiere abbiamo deciso di utilizzare le basi pre-registrate, di cui facevamo uso anche nei tour precedenti a questi avvenimenti. Questo è il motivo per cui nell’ultimo album le tastiere sono meno predominanti rispetto alle produzioni precedenti, anche se non ci abbiamo rinunciato del tutto (fanno pur sempre parte del nostro sound). Adesso quando componiamo partiamo spesso dalle chitarre, ma anche dai suoni elettronici, che possono far nascere idee impensate. Abbiamo dato maggior risalto alle chitarre e alla sezione ritmica, ottenendo un sound molto più asciutto e granitico allo stesso tempo. Le tastiere in ogni caso sono l’elemento che dona ai brani un aspetto più sognante ed etereo, un valore aggiunto non indifferente. Ora dal vivo le tastiere sono registrate, ma secondo noi questo non va a scapito dello show. L’impatto che abbiamo sul palco è lo stesso di prima.
La copertina del disco, elaborata dal grafico Alessandro Palvarini, è molto bella ed anche il titolo è ad effetto. Ci puoi dire qualcosa sui contenuto generale e magari su qualche testo, che ritieni più significativo. Il disco è un concept album ispirato a “La Nausea” di Jean Paul Sartre e, come il libro, racconta di un uomo molto critico e disilluso nei confronti delle persone che lo circondano: il protagonista considera gli abitanti di questa città (che lui non chiama mai per nome, ma ha soprannominato Hypocricity) immersi in un mondo di ipocrisia e di finzione, in cui credono di vivere la migliore vita possibile, perché è troppo doloroso guardare in faccia la miseria delle loro vite. Il disco racconta le vicissitudini di quest’uomo, dai ricordi di affetti ed amicizie perdute (“Ephemeral”) alla consapevolezza della fine di un amore assoluto (“Mechanical Flowers”), fino ai suoi tentativi di lasciarsi tutto alle spalle (“Sanctuary”). A questo punto, il disco si stacca dalla trama del libro: il nostro protagonista comincia a perdere il lume della ragione (“The Running Flow”) fino ad arrivare all’irreparabile. Commette un omicidio senza un vero motivo (“Death of a Jazz Trumpeter”), diventando colpevole agli occhi di tutti, non tanto per l’omicidio in sé, ma per avere infranto il loro mondo perfetto (“Not One”), e decide quindi di abbandonare quel luogo corrotto e destinato alla rovina (“Crows and Hail”). L’uscita di scena del protagonista può essere letta sia in chiave letterale (il personaggio si allontana via mare su una barca) sia in chiave metaforica (il suicidio). Ci piace l’idea di lasciare la fine della storia all’interpretazione dell’ascoltatore. La copertina rappresenta tutto questo: la città che si schianta sulla testa del protagonista, oppure che esce dalla testa dello stesso, come se esplodesse. L’immagine può essere guardata in entrambi i sensi. Fun fact: la persona in copertina è il nostro ex tastierista Marco Baschera, che si è prestato a farci da modello, pur non essendo più nella band. Il titolo, come si può dedurre, è una fusione tra le due parole “hypocrisy” e “city”. Suonava bene ed è perfetto come titolo per la storia raccontata nell’album.
Qual è stato il complimento più bello che avete ricevuto e un momento difficile, dovuto a qualche critica? Il complimento più bello l’abbiamo ricevuto durante il primo tour europeo come supporto ai Queensrÿche, nel 2016: le persone che dopo il nostro show venivano a parlare con noi alla nostra postazione merchandise faticavano a credere che eravamo italiani: pensavano a noi come una band inglese o del Nord Europa, perché il nostro sound non aveva nulla di italiano. Per noi è stato un grande riconoscimento, perché abbiamo sempre voluto dare ai nostri brani un’impronta il più possibile internazionale. Momenti difficili? Beh ce ne sono stati, ma più che alle critiche – che sono comunque sempre utili – erano dovuti a situazioni dove non ci sentivamo considerati, oppure quando ci ritrovavamo in contesti dove sembrava che ci facessero un piacere a farci suonare. E’ successo raramente, ma non è mai una bella sensazione.
Ogni tanto pubblicate sul vostro canale YouTube qualche cover riarrangiata a modo vostro, spesso stilisticamente lontana dalla vostra proposta. Come scegliete i pezzi e come ci lavorate nell’arrangiamento? I pezzi li scegliamo tutti insieme, devono in primis piacere a noi. Più sono lontani dal nostro stile più ci interessano, perché è sempre stimolante uscire dalla propria zona di comfort. Una volta scelto il brano, ci piace trovare non solo un arrangiamento e delle sonorità diverse dal brano originario, ma anche degli accordi differenti (ad esempio un brano maggiore virato in minore, ma non solo). In tutto questo, manteniamo la melodia vocale estremamente fedele all’originale, così che il brano possa essere riconoscibile, pur su un giro di note totalmente nostro. La cosa ha sempre funzionato egregiamente, tanto che ci è già capitato di suonare le nostre cover live e vedere il pubblico cantare con noi, conoscendo la canzone originale e apprezzando allo stesso tempo la nostra versione.
Quanto possono aiutare i social o fare danni, secondo la tua esperienza? I social sono – almeno sulla carta – sicuramente molto utili per farsi conoscere, per far sentire la propria musica anche a persone che non avrebbero mai la possibilità di vederti suonare dal vivo, perché magari sono dall’altra parte del mondo. Questo però vale per tutti quelli che fanno musica; di conseguenza ogni giorno vengono messe sul web valanghe di musica, professionale e non, che intasano le piattaforme musicali rendendo molto difficile se non impossibile individuare gli artisti di qualità, o più semplicemente quelli che ci potrebbero piacere più di altri. Le piattaforme in questo senso non aiutano, perché il meccanismo delle playlist e degli algoritmi sta pian piano appiattendo la creatività degli artisti. Puoi essere un eccellente compositore o paroliere, ma se quello che fai non soddisfa uno sterile algoritmo, rischi di restare invisibile. Ma sono convinto che contro l’ipocrisia e gli algoritmi può vincere solo il talento!
Come sono cambiate, secondo te, le dinamiche del mercato discografico. Oggi vendere il cd sembra quasi superfluo, la visibilità si conquista suonando dal vivo, ma le band storiche occupano ogni spazio, sia stadi che club, a seconda della loro notorietà. Come se ne esce fuori? E il pubblico quanta responsabilità ha? Si potrebbe parlare per ore su questi argomenti, ma la sostanza è che negli ultimi anni le etichette discografiche spesso valutano le band principalmente in base ai risultati ottenuti su Spotify e simili. Il lato artistico passa in secondo piano, contano solo i numeri. E la band questi numeri dovrebbe raggiungerli da sola, per essere appetibile: in pratica, le etichette vogliono il pacchetto già pronto. Il punto è che per una band è difficile ottenere autonomamente dei numeri, senza avere un aiuto promozionale da una etichetta, quindi diventa tutto un circolo vizioso. I concerti dal vivo sono rimasti il modo migliore per farsi vedere e per far sentire la propria musica, ma – almeno in Italia – non è così facile suonare dal vivo per le band con un repertorio proprio: per i locali è meno rischioso far suonare una tribute band o cover band. Aggiungiamo inoltre che i CD non si vendono quasi più, se non agli appassionati del supporto fisico. La musica è diventata liquida, sia per una questione di praticità che di costi. Difficile spiegare ad un fanatico di Spotify il gusto di aprire un cd (o un vinile), sfogliare il booklet, leggere i testi, guardare le foto, le idee grafiche, e tutto il resto. Come se ne esce fuori? Forse solo il pubblico potrebbe invertire questa tendenza, cercando e valorizzando le band che scrivono e suonano la propria musica, ma manca la voglia di cercarle, di scoprirle, di uscire di casa per sentirle dal vivo.
Pensi che il valore della vostra musica non sia riconosciuto abbastanza? E come vedi il futuro dei Methodica? Sia a breve che a lungo termine? Diciamo che ci piacerebbe avere dei riscontri maggiori sul nostro lavoro, ma credo che tante band come noi potrebbero dire la stessa cosa: alla fine, facciamo sì musica per noi, ma anche per farla ascoltare a più persone possibili. I momenti di sconforto non sono mancati, negli anni, ma la passione è più forte dello scoramento che ogni tanto si fa sentire. A volte abbiamo la sensazione di combattere contro i mulini a vento, e di essere in una situazione stagnante, dove nonostante tutti gli sforzi che facciamo, non riusciamo a smuoverci di un millimetro. Nel futuro dei Methodica comunque ci sono ancora concerti, ancora musica, ancora canzoni. Forse album completi, forse singoli brani pubblicati man mano, sono cose che decideremo in corso d’opera. Dopotutto, non abbiamo un’etichetta al momento – purtroppo – ma almeno questo ci permette di essere completamente autonomi sulla nostra produzione musicale. Una cosa è sicura: amiamo troppo la musica per arrenderci!
Massimo Piubelli – Vocals
Marco Ciscato – Guitars
Alessandro Lanza – Bass
Marco Piccoli – Drums
Website: https://www.methodicaofficial.com/