Precisi, attenti, ma anche ironici e sfrontati, Paolo Poli e Michele Bozzi dei Popforzombie ci raccontano il coraggio di suonare solo ciò che si ama in un’Italia dove la musica indie rock sta vivendo un momento di grande fertilità, basta solo guardare dall’altra parte!
Stimolati dall’ascolto dell’ottimo “Ricordati di vivere”, terzo album di una carriera decennale, abbiamo incontrato la band, che non si è risparmiata in aneddoti e spiegazioni. Questo il risultato.
Partiamo dalla copertina: siamo così? Nascosti dietro un costume che fingiamo di essere chi non siamo e di amare cose che non ci appartengono?
Michele Bozzi: Nella copertina quei dodici costumi messi in fila, tutti un po’ sbagliati, inadeguati, in qualche modo mal assortiti, volevano rappresentare le canzoni dell’album. Poi dentro ai costumi in effetti ci siamo noi, e a ben vedere siamo anche nudi il che probabilmente significherà qualcosa… quindi forse si… siamo tutti un po’ così, e ci sono delle maschere quasi obbligatorie che in qualche modo si è costretti ad indossare se si vuole partecipare di qualcosa. Paolo Poli: Ultimamente sento di vivere una dicotomia interna che da un lato mi spinge ad apprezzare il fatto di non “apparire”, nascosto sotto un improbabile costume e dall’altro mi porta ad essere estremamente onesto con me stesso, amando ogni mia imprecisione e debolezza, in totale assenza di filtri quando canto (e mi esibisco). La grafica del disco culla il primo lato. La musica gratifica il secondo.
La vostra proposta, una sorta – se me lo concedete – di cantautorato indie, sembrerebbe vivere anche un periodo buono. É una mia illusione o lì fuori è una giungla che privilegia solo dinamiche già affermate?
P: Dal mio punto di vista il cantautorato indie vive in un costante periodo fertile. Provo a spiegarmi: il cantautorato nasce dalla necessità espressiva di chiunque senta di aver bisogno di esprimere qualcosa. Ed è una questione intergenerazionale che c’è sempre stata e sempre ci sarà. Ciò implica che il mondo espressivo indie abbia da sempre l’unica regola di non avere regole. Il fatto che poi ci si ritrovi tutti in una giungla fa si che ogni membro della foresta faccia del suo meglio per sopravvivere. M: Al di là delle dinamiche commerciali, di vendita del prodotto, sempre più legate ad imperscrutabili algoritmi, lì fuori c’è tantissima musica, ci sono tantissime proposte di ogni tipo. Il problema è scovarle, e poi soprattutto decidere di ascoltare davvero, senza farsi distrarre da tutto il resto. Mi sembra che la questione sia in qualche modo legata ad un sovraccarico di informazioni, che ci impedisce di focalizzare l’attenzione su qualcosa. Di fatto questo porta a diluire tutto in dinamiche “usa e getta” che un tempo erano proprie solo delle proposte legate al puro intrattenimento, e che adesso mi sembrano lambire anche quelle più autoriali.
Quando scrivete materiale nuovo, da 1 a 10 quanto discutete? E i motivi quali sono? Mi spiego: l’ago si sposta verso il pop o verso l’idea che non deve essere tutto facile all’ascolto?
M: Negli anni passati è stato tutto un 10. Una discussione continua piuttosto estenuante… per quest’ultimo album abbiamo invece discusso pochissimo, giusto un po’ per capire, insieme a Flavio Ferri, se alcune canzoni che magari ci piacevano potessero trovare un senso all’interno del disco. Attualmente in questa “scala dello sclero” siamo bassi: 2 su 10 direi. Questo perché negli ultimi anni abbiamo smesso di comporre direttamente in sala prove, per cui la scrittura resta qualcosa di intimo e il pezzo viene proposto agli altri già sotto forma di demo, che spesso si rivela anche abbastanza definitivo. Se il pezzo piace bene, se non piace o non ha senso all’interno dell’album viene scartato o temporaneamente messo da parte. Poi capita che qualche arrangiamento si ripensi completamente all’ultimo minuto. In questo senso la versione di una canzone è la fotografia del preciso istante in cui viene registrata, mentre la scrittura è sempre qualcosa di precedente. Il nostro ago ultimamente si muove tra il pop e il cantautorato perché Paolo ha un’anima abbastanza pop mentre io ne ho una più cantautoriale. Ma, per dire, Davide ama i Black Sabbath e Zaffa gli Steely Dan… insomma i nostri gusti musicali non coincidono ed è bene che sia così, se no sarebbe una noia. P: L’ago, come dice bene Bozzi, si muove tra il pop ed il cantautorato ed io credo che sia un valore aggiunto. Amo da sempre ascoltare artisti che non sono sempre troppo uguali a sé stessi. Se poi questo sia il risultato di discussioni accese o espressioni delle diverse personalità delle “penne” all’interno delle band dipende da troppi fattori interni ed esterni. Personalmente sono attratto dall’idea di scrivere un disco pop decisamente più ruvido dei precedenti ma tra il progetto e la sua realizzazione dovremo “discuterne” con Bozzi… Il fatto che un brano sia facile oppure no all’ascolto è una questione che non mi sono mai posto. Soprattutto in questo ambito sento l’esigenza di non avere alcuna regola da seguire.
I vostri testi sono sempre interessanti, lineari, ma con metriche belle e parole non scontate. Quanto ci lavorate sopra?
M: Beh grazie! So di autori che faticano tantissimo sui testi, cesellandoli all’infinito e versando letteralmente il proprio sangue su ogni singola parola. Forse capita così quando si è contrattualmente obbligati a scrivere, o è proprio una questione di indole… comunque non è questo il mio caso. Io scrivo una canzone alla volta e nella maggior parte dei casi lo faccio perché mi gira in testa continuamente un certo argomento, legato ad una certa metrica e ad una certa melodia. Quando proprio non ne posso più, perché la cosa diventa un po’ un’ossessione, chiudo la canzone: la formalizzo e, almeno temporaneamente, me ne libero. In questi casi, che sono la maggior parte, lavoro più per sottrazione. Poi ci sono le eccezioni ovviamente: canzoni venute di getto e altre per le quali ci si deve impegnare un po’ di più perché, ad esempio, magari manca un’ultima strofa… anche se ultimamente sono dell’idea che non sia poi così sensato: se quel che volevi dire sta tutto in un paio di strofe forse è meglio scrivere un pezzo di un minuto e mezzo piuttosto che aggiungerne forzatamente una terza, una quarta, un ritornello ecc… a chi importa? Trovo invece più difficile scrivere linee melodiche per me nuove, che non siano quelle che mi vengono naturali, che ho evidentemente interiorizzato in qualche modo, e che di fatto riutilizzerei continuamente. P: Io e Bozzi abbiamo un approccio diverso. Io cerco sempre di rimanere sulla superficie delle cose, quasi ad evocare più significati possibili in chi ascolta. Ma forse anche per proteggere qualcosa che se svelato in profondità potrebbe quasi farti male. Non per paura di denudarsi, ma per rispetto dell’emozione in sé stessa. Nell’ultimo disco c’è un solo brano scritto da me e le cose davvero importanti da cui abbiamo preso le distanze le guardiamo nello specchio ogni volta che ne sentiamo il bisogno. Mica quando cantiamo.
A parte l’urgenza creativa, oggi perché vale la pena ancora pubblicare un album intero e non solo brani singoli come fanno in molti? E il disco fisico è una forma di resistenza e ribellione agli algoritmi, che significato ha per voi?
P: Noi siamo una band dal DNA analogico. Pubblicare un album è un processo del tutto naturale per chi come noi ricorda ancora bene l’odore dei vinili. Dal punto di vista creativo non saprei dire se è necessario continuare ad immaginare la pubblicazione di un album o di più singoli. Le nuove tecnologie aiutano parecchio il processo produttivo e, parimenti alla lunghezza di un testo, di un brano, credo abbia senso domandarsi quante cose si pensa di voler affrontare (o si hanno da dire). Se sono due si faranno due singoli, se sono di più magari un EP, se sono tante un LP. Non è un tanto al chilo, né uno svilimento artistico. Anzi. A noi capita spesso di avere brani molto legati alla contemporaneità, che però poi non entrano in nessun disco perché risultano “vecchi” nel momento in cui il disco viene realizzato. Forse anche noi dovremmo diventare più contemporanei e provare a pubblicare in maniera estemporanea alcuni dei nostri brani. Per quanto riguarda il formato fisico è una questione che appaga per lo più l’artista stesso oltre a qualche sparuto collezionista (come me) di cd o, ancor di più, di vinili. Nessuna resistenza valorosa… M: Io credo anche che la questione sia un po’ legata al discorso che facevamo prima sul sovraccarico informativo che ci affligge tutti, e che ci toglie il tempo di fermarsi su qualcosa. Molti dei miei album preferiti li ho ascoltati da adolescente, con tutta una serie di restrizioni e di difficoltà che mi portavano, una volta comprato, e avendoci investito, ad ascoltare l’album per intero più e più volte… Questo tipo di esperienza è condivisa da quasi tutti quelli che hanno la nostra età, e il tutto avveniva in negozi di dischi neanche troppo ben forniti, e nonostante la scelta fosse fatta spesso un po’ a caso in base al genere, alla copertina, a quello che ci aveva vagamente consigliato qualcuno o che avevamo letto da qualche parte, o ad una singola canzone ascoltata alla radio, di cui non ricordavi bene il titolo e che il più delle volte risultava poi non essere nemmeno presente nel disco. Chiaramente a volte si incappava in delusioni colossali ma, se il disco aveva un valore, era impossibile non coglierlo, perché non ti veniva nemmeno in mente di ascoltare velocemente solo l’inizio delle prime due o tre canzoni magari anche pensando “bello, mi piace”, per poi passare ad altro e dimenticare la cosa, come purtroppo si è portati a fare oggi. Ecco questo è per dire che un album intero concepito come tale, e in formato fisico, forse oggi aiuta un po’ a ricostruire quel tipo di esperienza.
Quanto è importante per voi il concerto? Cercate nuovi ascoltatori suonando dal vivo, rischiando il silenzio o preferite situazioni che garantiscono un pubblico che vi conosce?
P: Il concerto è da sempre un piccolo rito collettivo. Anche di fronte a pochi ascoltatori rimane affascinante. Personalmente ciò che continuo ad apprezzare di più è quella sensazione di condivisione che si sviluppa contemporaneamente sopra il palco e sotto il palco. Senza la prima però non sarei in grado di continuare. È l’alchimia della band che mi sostiene e che appaga le mie sensazioni. Anche in sala prove riesco spesso ad emozionarmi. Quando dal vivo l’alchimia della band si fonde con l’energia di chi è sotto il palco il mondo emozionale si amplifica ed è li che stiamo davvero bene. Dal punto di vista della programmazione cerchiamo di suonare dove pensiamo di poter essere credibili. E non è una questione di “quantità di pubblico”, ma una ricerca di somiglianza con il pubblico. Non sempre ci riusciamo… M: Esatto, in effetti abbiamo molti bei ricordi di concerti fatti anche di fronte a pubblici molto esigui. Allo stesso modo ci si può trovare male anche se c’è molta gente, perché magari non è la gente giusta. L’esperienza in quanto tale, insomma, conta di più del “successo” dell’operazione, anche perché come dice Paolo c’è tutto un prima e un dopo il momento in cui si suona che è fondamentale.
L’idea di proporre alcuni pezzi in una nuova veste con gli ospiti come prende forma? E c’è un motivo particolare che avete posizionati i brani alla fine?
M: È tutto legato all’ottica dell’album, sono dodici canzoni che ci sembra trovino un senso più compiuto se ascoltate tutte di fila. Il disco vero e proprio ha un inizio ed una fine e al suo interno il featuring è solo uno, quello con Tommaso Cerasuolo in “Padre”, che non è una reinterpretazione ma una condivisione del pezzo, nata di fatto prima che nascesse l’idea stessa dell’album. Talèa, Andrea, Roberto, Mariano e Danilo presentano invece fotografie “altre” degli stessi brani: fanno in qualche modo parte di un possibile album alternativo, sviluppatosi a distanza, in modo parallelo a quello che è stato. P: Durante il Covid abbiamo pubblicato un disco che conteneva ben sei featuring. Nel momento stesso in cui nessuno poteva uscire di casa abbiamo messo in circolazione le nostre canzoni e ci siamo emozionati quando sono tornate arricchite di nuove sfumature. Questo processo mi ha talmente segnato che lo vorrei ripetere all’infinito. Non riesco più a fare a meno di immaginare altre voci e altri arrangiamenti sui nostri brani (Bozzi dice che mi sono fatto un po’ prendere la mano… e forse non sbaglia). Nel disco nuovo le suggestioni che sono arrivate erano così forti che alla fine era necessario che io sparissi. Così sono venute fuori delle versioni davvero alternative alle originali. Ascoltarle insieme amplia lo spettro dei significati che un brano può avere.
Paolo Passera “Poli”: voce, Michele Battaggia “Bozzi”: chitarra, Davide Costa: basso e Roberto Zaffaroni: batteria
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/popforzombie