Venerdì 13 giugno, nel cuore sospeso del Forte Antenne di Roma — luogo insolito e pregno di memoria, tra resti militari e la vegetazione incombente del Parco di Villa Ada — Giorgio Poi ha portato in scena un concerto che sa di rito laico, intimo e collettivo insieme. Un tutto esaurito annunciato da giorni: circa mille persone raccolte in religioso silenzio prima e in coro appassionato poi, a scandire le parole di un artista che, senza mai alzare la voce, riesce ancora a farsi sentire più forte di molti altri.

Sul palco, allestito con una scenografia evocativa che richiamava fedelmente la copertina di “Schegge” — l’ultimo album, forse il più stratificato e notturno del suo percorso — Giorgio Poi si è presentato in punta di piedi, come nel suo stile. Ma bastano poche note, l’attacco liquido di “Giochi di gambe”, perché il concerto trovi subito la sua temperatura emotiva. È un viaggio fatto di riverberi, di parole leggere che pesano, di malinconie eleganti e ritornelli che si insinuano senza invadere. Il live scorre con una fluidità sorprendente: “Acqua minerale”, “Nelle tue piscine”, “Il tuo vestito bianco”, poi “I pomeriggi”, piccoli affreschi urbani e sentimentali, come Polaroid lasciate al sole. E quando arriva “Erica cuore ad Elica”, con quel suo incedere carezzevole, il pubblico si fa corpo unico. La band, rodata e impeccabile, è la solita piccola meraviglia. Matteo Domenichelli al basso costruisce strutture elastiche e avvolgenti, Francesco Aprili alla batteria è preciso e delicato come un orologiaio svizzero. Al loro fianco, il tastierista Davide Sambrotta — vero architetto della serata — colora tutto con pennellate sonore, a metà tra vintage e futuro. Il cuore del concerto sta forse proprio in brani come “Rococò”, “Non c’è vita sopra i 3000 kelvin”, “Un aggettivo, un verbo, una parola” e “Stella”: pezzi che condensano il modo unico di Giorgio Poi di raccontare l’oggi — un realismo emotivo senza rabbia, capace di essere profondo anche quando parla di nulla apparente. Ovazione per “Tubature”, ormai un piccolo classico, seguita da “Niente di strano”. La scaletta è pensata come un racconto unico, culminato nell’abbraccio collettivo de “La musica italiana”, cantata a squarciagola dal pubblico: non per nostalgia, ma per appartenenza. Stessa atmosfera con “Giorni felici”.

Poi la traiettoria si fa più rarefatta, quasi cosmica, con “Tutta la terra finisce in mare” e “Delle barche e i transatlantici”, fino alla cover sincera di “Estate” di Bruno Martino, in una versione sospesa, quasi cinematografica. “Schegge”, l’omonima strumentale, ha fatto da ponte suggestivo verso i bis, una cesura e una soglia. Nel finale, i fuochi d’artificio emotivi: “Missili”, “Vinavil”, “Les Jeux Sont Faits”. Applausi sinceri, lunghi, affettuosi. Nessuna concessione all’effetto facile, nessun calcolo. Solo musica, sentimento e parole che si incastrano come nel migliore dei puzzle. In un panorama musicale spesso ingolfato da sovraesposizione e rumore, Giorgio Poi continua a fare ciò che gli riesce meglio: essere se stesso, anche quando questo significa non essere come nessun altro. E ieri sera, al Forte Antenne, è stato chiaro a tutti: quella di Giorgio è una musica che non urla, ma resta.