Pinguini Tattici Nucleari – Stadio Olimpico di Roma (4 luglio 2025)

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Quando le luci si abbassano e il countdown annuncia l’inizio di “Hello World”, è chiaro che qualcosa di grande sta per accadere. Sono le 21.20, e l’Olimpico trabocca in ogni ordine di posti. L’ultima data del tour – lo dicono loro stessi – non è solo un concerto, ma una festa, un ritorno, un rito collettivo.

Foto di Giovanni Buonomo

Sul palco una scenografia imponente e coloratissima: schermi mobili, luci ipersature, inserti video in stile arcade, avatar pixellati, joystick giganti. Una dimensione parallela ispirata al mondo dei videogiochi, dove ogni canzone diventa un livello da superare, una boss battle emotiva, una conquista sonora. In mezzo a tutto questo, loro sei: i Pinguini Tattici Nucleari, perfettamente riconoscibili ma completamente trasformati. Più maturi, più consapevoli, ma ancora dannatamente fedeli a sé stessi. Riccardo Zanotti entra con il suo solito sorriso sghembo e la chitarra a tracolla. Dopo “Hello World”, partono subito le hit, ovvero “Giovani Wannabe” e “Ringo Starr”, e da lì la scaletta non rallenta mai. Il pubblico canta tutto, parola per parola, trasformando lo stadio in un’unica, immensa voce. Zanotti è il centro di gravità del palco, ma mai accentratore: lascia spazio, crea vuoti, guarda i compagni come se si sorprendesse ancora di trovarsi lì, con loro, su quel palco. E infatti, in questo ultimo show del tour, si avverte in modo forte la coralità del progetto. Nicola Buttafuoco si prende la scena con un assolo ruvido e potente su “Romantico ma muori”, quasi a voler spaccare in due la canzone, mentre Lorenzo Pasini costruisce tappeti melodici più liquidi, più introspettivi, specialmente in “Ricordi” e “La storia infinita”. Il loro dialogo chitarristico è una delle costanti più affascinanti della serata. A tratti, è Simone Pagani a cambiare passo. Con il basso tiene tutto in equilibrio, ma è in “Amaro” che il tempo sembra fermarsi. Un sussurro gentile che si appoggia su una melodia tenue, come una crepa luminosa in mezzo a tanto colore. Anche Matteo Locati, alla batteria, non si limita a scandire il tempo: in pezzi come “Bottiglie vuote” e “Alieni” si prende libertà ritmiche che spingono i brani oltre la forma originale. Le sue rullate diventano parte della narrazione. Elio Biffi è, come sempre, il contrappunto poetico. Alla fisarmonica e alle tastiere crea mondi: “Islanda” è un sogno a occhi aperti, “Bergamo” un viaggio dolente, e ogni sua nota sembra avere un’ombra e un colore propri. La sua voce compare, si incastra, si dissolve: non invade, ma definisce.

Foto di Giovanni Buonomo

La scaletta è un saliscendi emotivo continuo. “Scrivile scemo” fa esplodere lo stadio, “Antartide” porta un gelo poetico che rinfresca l’anima, “Coca Zero” è puro teatro surreale. Poi, in un crescendo visivo e sonoro, arriva “Lake Washington Boulevard”, introdotta da giochi di luce violacei e rallenty emotivi. L’atmosfera si fa rarefatta con “Piccola volpe”, subito prima di risalire con l’energia quasi euforica di “Islanda”. Il concerto trova una parentesi elettrizzante anche con un DJ set: un medley pensato per far ballare tutti e dare qualche minuto di respiro alla band. “Burnout”, “Tetris”, “Bagatelle”, “Nonono”, “Your Dog”, “Scooby Doo”: sei brani che si rincorrono in un loop di suoni glitchati, visual da retrogaming, e pubblico in delirio. È un intermezzo surreale, tra clubbing e cartoon. Poi, come un’onda che torna, riprende la narrazione con “Dentista Croazia” e “Verdura”, e infine “La banalità del mare”, cantata quasi sottovoce da tutto lo stadio. E proprio quando la tensione sembra essersi assestata, arriva il primo vero pugno nello stomaco.

Foto di Giovanni Buonomo

Con “Giulia.” la band apre un varco nel tono generale della serata. È un momento di raccoglimento. E subito dopo “Ridere”, quando le luci si abbassano del tutto, parte il video messaggio di Chiara Tramontano, sorella di Giulia, la giovane donna uccisa mentre era incinta. “A volte la vita sembra una promessa non mantenuta… Giulia non è diventata un simbolo, è rimasta una persona…”. Le sue parole non cercano retorica, ma trovano commozione. L’intero Olimpico resta in silenzio. Poi partono gli applausi. E quando inizia “Migliore”, è come se l’intera serata cambiasse pelle. Il brano è una carezza che diventa pugno, un inno che è anche preghiera, e non c’è bisogno di coreografie: bastano le parole. Gli ultimi tre brani – “Rubami la notte”, “Pastello bianco”, “Titoli di coda” – sono la chiusura perfetta. Li cantano tutti, li piangono tutti. Sono i saluti dopo un lungo viaggio, con quella malinconia felice che si prova solo quando qualcosa di bello finisce, ma non si dimentica. E solo allora, quando le luci si fanno di nuovo più calde, Riccardo prende il microfono per l’ultima volta. Non per cantare, ma per raccontare. Non era all’inizio, ma verso la fine della serata, ha ricordato il loro primo concerto a Roma: “Era a Na Cosetta. Un palco piccolo, in sei, stretti, sudati, felici. E ora guardateci… guardatevi”. La chiusura è tutta lì, in quel ritorno al punto di partenza. Dalla Roma dei locali minuscoli alla Roma dei grandi stadi, i Pinguini chiudono il cerchio come si chiude un bel romanzo: con l’emozione che resta appesa. E la sensazione fortissima che sì, questa è la fine di un tour. Ma anche l’inizio di qualcosa di ancora più grande.