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Pubblicato il 21/02/2007 alle 23:55:12
Coraggioso come i suoi Timoria, tenero nell’omaggio a Tenco. Enrico Ghedi e la cover di un ricordo
di Andrea Del Castello
La casa editrice Il Foglio pubblica un’antologia di cover in forma di racconto letterario firmate da sette musicisti. Enrico Ghedi racconta i particolari di questa singolare esperienza.

La casa editrice Il Foglio pubblica un’antologia di cover in forma di racconto letterario firmate da sette musicisti. Enrico Ghedi racconta i particolari di questa singolare esperienza.

“Non sono io il principe azzurro” è il titolo di questa antologia tributo a Luigi Tenco in cui sette musicisti si sono cimentati in una prova singolare, quella cioè di dar vita ad un racconto letterario, prendendo come spunto una canzone a testa del cantautore scomparso nel 1967. Sono così nate delle cover letterarie che compongono questa antologia in cui il filo rosso è rappresentato dalla costante presenza di Tenco e delle sue canzoni ancora estremamente vive ed attuali. Francesco Gazzé si è ispirato a “Tu non hai capito niente” e Riccardo Maffoni ha riletto “Vedrai, vedrai”; la rivisitazione di “Una vita inutile” è di Diego Galeri, mentre Stefano Giaccone ha dato una sua versione di “Isy”; segue la cover di “Se qualcuno ti dirà”, che è stata scritta da Gigi Giancursi, mentre Giulio Casale si è cimentato con “Ciao amore, ciao”. Chiude la raccolta il racconto di Enrico Ghedi, ispirato a “Vedrai che cambierà”. Musicista, drammaturgo, giornalista, esperto di computer, membro fondatore dei Timoria (nella foto del 1995) con Francesco Renga, Omar Pedrini, Carlo Alberto Pellegrini e lo stesso Diego Galeri: in quante attività è impegnato Enrico Ghedi? Glielo chiediamo durante una piacevole passeggiata lungo un viale alberato di Brescia in un soleggiato pomeriggio di questo mite febbraio.

Andrea Del Castello - Come hai vissuto questa esperienza come autore di una cover letteraria su un brano di Luigi Tenco? Quali sono le differenze nell’approccio tra una cover classica e una cover letteraria?
Enrico Ghedi - Credo che non ci siano differenze se partiamo dal presupposto che realizzare una cover significhi reinterpretare qualcosa che ha un’identità forte e precisa, per cui è sempre un omaggio intimo e umile, non un esercizio di stile.

ADC – A livello biografico quanto c’è di tuo e quanto di Tenco?
EG – C’è molto di entrambi, o meglio, c’è il comune senso del disagio di un certo periodo della vita nei confronti del music business e degli “ambienti difficili” che ha portato sicuramente a dei gesti risolutivi. Credo di aver capito quello che Tenco ha fatto: io quando sono stato male non ho avuto il suo coraggio o la sua follia: infatti se nel racconto il mio personaggio si risveglia in ospedale, nella realtà Tenco non si è più risvegliato. Per quanto riguarda invece gli altri personaggi del racconto, essi sono “estremizzati” e strumentali: volevo far capire il clima che tutti noi Timoria vivevamo in quel momento, l’ambiente delle case discografiche, delle radio e di Sanremo, per quanto raramente vi avessimo partecipato per questioni di stile musicale. Questo per spiegare che stimo molto tutti i miei compagni di viaggio, sia umanamente che artisticamente, e per rispondere alle domande che vorrebbero leggere qualcosa di biografico in questo o quel nome del racconto. Anche mio padre non è cosi e mia madre c’è ancora, grazie a Dio. Il motivo per cui ho accettato di scrivere in questa antologia è sicuramente il fatto che sono stato interessato a Tenco più come persona che come artista… ma comunque in quanto artista.

ADC – Cosa ha fatto propendere la scelta verso “Vedrai che cambierà”?
EG – Era una canzone che cantava mio padre quando ero piccolo, ed è il vero leit motiv del racconto: più che coverizzare un brano, ho coverizzato un ricordo.

ADC – A te è toccato il compito più delicato, quello di chiudere il libro con il settimo racconto. In un disco o in una raccolta di racconti l’ultima canzone o l’ultimo capitolo sono fondamentali. Era già decisa a priori la scaletta, oppure l’ordine è stato deciso alla fine in base alle caratteristiche di ogni racconto?
EG – E’ vero che è un compito delicato, ma è accaduto per puro caso: il curatore dell’antologia ha inserito i racconti in ordine di consegna, io sono stato l’ultimo, sono contento che sia andata in questo modo.

ADC – Sarà stata anche una coincidenza, ma la struttura è molto coerente. Leggendo il libro si nota, oltre ad una presenza costante dello spirito di Tenco, anche un’altra caratteristica che denota come il punto di partenza di questo lavoro siano state delle canzoni: si avverte infatti quella assenza di linearità propria della narrativa a favore di una onirica indefinibilità chiaramente legata alla peculiarità dei versi di un testo musicale.
EG – Credo sia vero, manca linearità prosastica ed è giusto e naturale che sia stato così poiché chi scrive è fondamentalmente musicale. Ma non succede nel caso di tutti i racconti, soprattutto non credo che succeda a “In fondo mi assomiglia”. Il mio racconto non parte da una lirica ma, come già detto, da un ricordo. Ho fortemente voluto che fosse così perché desideravo cimentarmi nella prosa e non creare un ibrido poetico. Ho scritto molto per il teatro utilizzando lo stile poetico ed ho voluto staccarmi dal mio consueto metodo di scrittura.

ADC – Sei stato sempre un amante della commistione tra le varie arti. Già con i Timoria tu e i tuoi compagni avevate palesato questa attitudine. E non a caso in questa operazione in cui si è creato un ponte tra musica e letteratura sono stati coinvolti due membri di quella band.
EG – Curiosi, coraggiosi e tenaci, i Timoria erano questo. Erano persone davvero curiose, a volte naif, bimbi che si sono contaminati, hanno contaminato e dopo anni dallo scioglimento continuano ad influenzare i giovani artisti italiani.

ADC – A proposito di attività polivalenti, quali sono gli altri progetti che stai portando avanti?
EG – E’ difficile da spiegare ma qualche anno fa ho fatto una scelta: la scelta della ricerca della serenità e dell’armonia. Non ho capitali finanziari per potermi dedicare alla sperimentazione e nello stesso tempo non sono così ipocrita da negare che la vita dell’artista, quando si hanno pochi soldi, è difficile davvero; nonostante questo stimo i pochi amici che ancora nel nome dell’arte vivono con i sussidi e cercano mecenati e fanno davvero la fame. Faccio un lavoro che mi piace molto e mi permette di avere una famiglia, ma purtroppo non posso dedicarmi all’arte come vorrei.
Ho iniziato a scrivere un romanzo e continuo a scrivere poesie che partecipano a concorsi e talvolta li vincono e sono soddisfatto dei risultati. Quando il romanzo sarà finito prenderò la mia valigetta e ricomincerò a bussare alle porte, sempre che il sabato o la domenica siano aperte.

ADC – C’è qualcosa in campo artistico che avresti voluto fare, ma che ancora non ti è stato possibile realizzare?
EG – La colonna sonora di un bel film. C’è bisogno di pubbliche relazioni e di tempo: le pubbliche relazioni le odio ed il tempo è sempre meno.

ADC – Come valuti i recenti sviluppi tecnologici?
EG – La tecnologia e le sue ri-voluzioni hanno rovinato il marketing della musica ma non la Musica; il peer 2 peer è un fenomeno commerciale non musicale. Oggi sono un “tecnico informatico” e mi occupo di reti di computer e sicurezza per le grandi aziende e di conseguenza per i privati, ma il mio pianoforte suona ancora e bene, quasi sempre meglio delle volte in cui avevo il fiato di un discografico sul collo o le nostre stesse angosce. Oggi sto meglio col mio amico Carlo a fare hacking e a suonare Billy Joel... sì, Billy Joel! Quando suonavo con i Timoria credevo nella tecnologia e sapevo che le cose sarebbero cambiate. Oggi non mi interessa ricevere meno royalties: a mio figlio comprerò meno cose, ma probabilmente ne insegnerò di più.

ADC – Hai nostalgia dei Timoria?
EG – Sì, dei concerti, dei momenti sul palco, immensi… e di alcune sessioni di registrazione: memorabili.

ADC – Allora facciamo un gioco: chiudi gli occhi e opera un confronto tra i diversi decenni comparando i ricordi più lontani a quelli più recenti. Cosa è cambiato?
EG – Penso al tempo in cui il rock italiano era ancora qualcosa di sacro e i discografici erano una specie di sacerdoti e conoscevano persino la musica o forse, scevro di note nostalgiche e demagogiche, credo semplicemente che sapessero lavorare bene con quello che avevano a disposizione.

ADC – C’è qualche discografico che ricordi volentieri?
EG – Uno con quelle doti di cui ti parlavo è Michele Muti: prendeva la creta e la lavorava. A volte era costretto a prendere la merda, ma la lavorava lo stesso. Non ti stava sul collo, ti costringeva a stare sul suo di collo perché il prodotto era ancora tutto sommato musica e sapeva come farla suonare. Me lo ricordo: sempre davanti al mixer coi suoi occhialetti puntati ai led... grande Michelino! Gli mando un abbraccio immenso. Invece i discografici che ho odiato sono quelli che hanno cominciato ad arrampicarsi sui vetri, una nuova specie di insetti, che per far guadagnare l’azienda e non essere calpestati da altri insetti più voraci hanno cominciato a leccare il culo alle radio. Le radio, altre specie di coleotteri brillanti che avevano già finito di avere a che fare con la musica, insetti che non sapevano aprire un file sul computer – soprattutto un file audio – e quando l’hanno imparato sono diventati i nuovi musicisti e hanno aperto la strada ai cloni dei veri musicisti.

ADC – E tra le collaborazioni degli ultimi anni, invece, quale ti ha dato maggiori soddisfazioni?
EG – Dopo i Timoria ho lavorato con Jack Hirshmann e Lawrence Ferlinghetti: ho accompaganato Jack in un reading in Italia e Ferlinghetti sempre in Italia in due performance nel 2005. Poi ho lavorato molto su altre cose, sono stato anche caporedattore di una piccola grande rivista d’arte e cultura, buona fucina per neofiti dell’arte, una rivista audace a cui auguro un grande successo commisurato all’ambizione. In quel periodo ho potuto incontrare di nuovo Marco Lodola e Matteo Guarnaccia ed è stato un nuovo germoglio della mia vita artistica ma ho avuto a che fare anche con uno sterminato numero di teste di cazzo, da New York a Parigi a Brescia, idioti con lo stronzo sotto il naso e il copioso (ed ereditato!) conto in banca che si occupano di arte figurativa, di moda e di gallerie d’arte e parlano pure di musica degli anni ‘90 e degli anni 2000. Ma lasciamo perdere: aprirei una scatola di vermi. Con un mio caro amico, che ho conosciuto come fan dieci anni fa, ho realizzato molti reading in Italia e due volte a Parigi. Lui leggeva me, io suonavo lui. Ci aspettano a S.Francisco….mah! Cercherò su googleheart… Il mio amico è Igor Costanzo. Sta uscendo il suo nuovo libro di poesie, la prefazione è di Alda Merini, la traduzione per gli Stati Uniti è del comune amico Jack Hirshmann. L’ho letto e ho pianto di gioia.

ADC – E il futuro? In quali dischi o concerti potremo ascoltarti?
EG – Ho ricevuto proposte ma non erano interessanti: in alcune non c’erano soldi, in altre non c’era contenuto. E poi io sono un uomo di cuore, non di testa.

Eh, già! Proprio così… Mentre penso che su tale affermazione non ci sia alcuna ombra di dubbio, sono distratto da un cane che abbaia sul marciapiede opposto. In un primo momento la cosa ci infastidisce leggermente, poi Enrico nota che quel labrador abbaia in metrica e la cosa ci diverte. Noto che per qualche secondo l’attenzione di Enrico è catturata da quella sequenza di pause e accenti dal timbro canino. Evito di disturbarlo… magari è un’ispirazione. Poi, destandosi dai pensieri, mi domanda: “Abbiamo abbandonato il tema letterario?” e poi aggiunge “Forse, ma non quello poetico”. Prima di congedarci mi chiede di porgere un saluto ai suoi ammiratori: Un abbraccio a chi leggerà Musicalnews, grazie a chi mi scrive ancora oggi con l’anima del guerriero e grazie ad Andrea, mio nuovo ed appassionato amico.
Enrico maestro Ghedi
.

Grazie a te, Enrico! E non solo per l’intervista…

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