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Pubblicato il 19/11/2011 alle 17:47:30
Piero Vittoria: ''I miei primi 40 anni''
di Massimo Giuliano
E' uno dei critici e giornalisti musicali più attivi, e ha da poco compiuto 40 anni. Piero Vittoria, teatino, collabora con varie testate. Abbiamo approfittato di questa ricorrenza per ripercorrere con lui la musica degli ultimi decenni.

E' uno dei critici e giornalisti musicali più attivi, e ha da poco compiuto 40 anni. Piero Vittoria, teatino, collabora con varie testate, come Newsmag e PianetaRock.it. Abbiamo approfittato di questa ricorrenza per ripercorrere con lui la musica degli ultimi decenni.

Una famosa canzone di Raf si chiedeva “Cosa resterà degli anni '80”. Tu, che sei un grande esperto degli eighties, che idea ti sei fatto?
Cosa resta oggi degli anni ’80? Semplice: un’eredità musicale di immenso valore. Quel decennio viene oggi tardivamente rivalutato: se si ascolta la radio spesso e volentieri si trovano classici di quel periodo. Le band di oggi non fanno mistero di rendere tributo a certe sonorità. Penso che siano stati anni che hanno aperto una strada. Ricordo che all’epoca molti critici storcevano il naso e invece ora tanti gruppi o cantanti degli eighties riempiono ancora le arene, vincono premi alla carriera, oppure ci sono reunion acclamate a gran voce dai fans ma anche dagli stessi critici. Per non parlare del look di quel periodo, tornato prepotentemente di moda. C’è da chiedersi se tutto questi derivi da un momento in cui effettivamente il mercato propina spesso fenomeni “plastificati” che durano il lasso di tempo di una stagione e poi magari spariscono. Credo che gli eroi di quegli anni vengano visti anche per questo come precursori o veri esempi da emulare. Tuttavia, il discorso da fare sarebbe molto più ampio e qui troppo lungo da affrontare: certo è che gli anni ’80 sono stati una decade molto ricca dal punto di vista sia culturale che musicale.

I Duran Duran sono uno dei gruppi simbolo degli anni ’80. Ritieni che Simon Le Bon e soci siano stati sottovalutati da qualcuno?
I Duran Duran sono la mia band preferita da sempre e credo che siano stati fortemente sottovalutati soprattutto dalla critica. Durante un’ultratrentennale carriera hanno scritto canzoni pop assolutamente perfette, di un’eleganza unica: look e musica, con loro, hanno sempre viaggiato a braccetto. Memorabili anche i video abbinati ai brani, che hanno fatto storia. Quest’anno sono stati premiati come “Icona di stile del XX Secolo” alla Settimana della Moda Milanese, a testimonianza di quanto abbiano influenzato le mode musicali e non solo. Non scordiamoci che molti gruppi di oggi si ispirano al loro sound dichiarando tutta la profonda ammirazione verso coloro che hanno letteralmente segnato un’intera generazione, sapendo allo stesso tempo rimanere sempre con grande onestà, fra alti e bassi, nel complicato mercato musicale. L’ultimo album “All you need is now” è la testimonianza di quanto ancora abbiano da dire. Mi dà molto fastidio quando li definiscono una boy band: non lo sono mai stati, sono infatti ottimi musicisti e Simon Le Bon è il frontman carismatico che ogni gruppo vorrebbe avere.

Preferisci i Duran Duran in formazione originale o con il chitarrista Warren Cuccurullo, che ha dato comunque un apporto importante?
Questa domanda mi offre lo spunto per cercare di spiegare una volta per tutte il mio punto di vista in proposito: il “sound Duran Duran” è quello della formazione originale, con l’inconfondibile tocco di Andy Taylor, chitarrista dal piglio più rock e istintivo. Lui però è sempre stato una bomba destinata da un momento all’altro ad esplodere: ha lasciato i Duran Duran per ben due volte e questo i fans non lo dimenticano facilmente, anche se al tempo stesso non fanno mistero della voglia di rivederlo di nuovo insieme a Simon e soci una terza volta. La fase artistica con Warren Cuccurullo è sicuramente la più geniale e ricercata: lui è uno molto tecnico, che ha messo la sua testa pensante al servizio della band producendo assoluti capolavori come “Ordinary world” e “Come undone”. Non dimentichiamo che viene dalla scuola di Frank Zappa. Sono dunque due periodi secondo me ben distinti, ma ugualmente grandiosi.

Hai avuto modo di conoscere personalmente Terence Trent D’Arby. Che esperienza è stata?
Ho sempre pensato che Terence Trent D'Arby sia uno dei migliori cantanti degli anni ’80. Nel 2002 è stato per me un grande piacere poterlo vedere ben due volte live, la prima ad Ancona e la seconda a Pescara. Proprio in occasione del concerto in Abruzzo ho avuto l’onore di conoscerlo e rimanere con lui a parlare: un vero signore, molto alla mano, gentilissimo e, neanche a dirlo, dotato di una classe innata. Mi ha regalato anche un promo cd di un suo singolo che mi sono fatto autografare insieme ad altri vinili che conservo gelosamente. Inutile precisare che il suo concerto è stato strepitoso e rimarrà nella mia mente per sempre.

Tra l’altro Terence Trent D’Arby si è esibito – seppur una sola volta – con gli Inxs...
Gli Inxs sono, a mio parere, un gruppo unico a loro modo: hanno saputo creare un sound molto personale e d’impatto che nessuno è mai stato in grado di imitare e che li ha comunque diversificati rispetto a ogni altra band dell’epoca. La morte del cantante, il carismatico e insostituibile Michael Hutchence, ne ha indubbiamente condizionato il cammino artistico. Hanno saputo, però, continuare con grande dignità: quello con Terence Trent D'Arby alla voce è stato un esperimento finito troppo prematuramente. Lui aveva portato quel taglio funky-soul che sarebbe potuto sfociare in ottimi spunti musicali.

Si è tornati a parlare di David Byrne e dei Talking Heads grazie a un film che tu hai apprezzato molto: “This must be the place”.
Non mi era mai capitato di vedere un film cinque volte in pochi giorni! Sean Penn è unico nel ruolo di Cheyenne. Penso che sia fondamentale, spesso, abbinare una giusta colonna sonora a un’opera cinematografica, e in questo caso tentativo riuscito in pieno. “This must be the place” non ha certo dovuto rilanciare il nome di David Byrne, ma ha contribuito a ricreare ulteriore interesse nei riguardi suoi e dei Talking Heads. Ritengo Byrne la mente più geniale degli anni ’80 e i Talking Heads il gruppo più intelligente di quel periodo insieme ai Talk Talk e agli Smiths. Forse la musica che facevano era troppo avanti per i tempi e non fruibile a tutti, molti dicevano che fosse solo per un certo pubblico “intellettuale”, ma io non sono d’accordo. Bastava accostarsi a un modo meno pop e più ricercato di concepire il mondo canzone per capire di essere di fronte a un autentico caso a sé stante in quell’epoca.

Un altro personaggio che hai avuto modo di incontrare è Jim Kerr dei Simple Minds…
I Simple Minds hanno segnato la mia vita. Sono, dopo i Duran Duran, il mio gruppo preferito. Mi sono avvicinato alla loro musica nel 1985, colpito da “Don’t’you (forget about me)”. Poi ho scoperto anche i vecchi dischi, un mondo diverso da quello di questa loro superhit mondiale, ma ancora più affascinante. Jim Kerr è un altro che emana carisma solo a vederlo su un palco. Il mio disco preferito? Sicuramente “New gold dream”, un capolavoro assoluto. Ho avuto la fortuna di vederli dal vivo più volte, ma la più emozionante è stata in occasione del Soundlabs Festival a Roseto (TE) lo scorso anno, quando ho realizzato un sogno: intervistare proprio Jim Kerr. E' stato fantastico stare con lui. Bello constatare come sia uno di quelli che, a distanza di tanti anni, fanno ancora musica con la passione che avevano agli esordi.

Cosa ne pensi dello scioglimento dei R.e.m.? Sarà una cosa definitiva?
I R.e.m. hanno avuto il coraggio di sciogliersi nel momento in cui si sono accorti di aver detto tutto: pochi lo avrebbero fatto. Questione di onestà e coerenza, qualità difficili da trovare oggi nel mercato musicale, visto che molti si trascinano pur di andare avanti e rimpinguare i guadagni con la routine disco-tour. Lasciano un gran vuoto nel panorama mondiale: nessuno riuscirà a raggiungere tali vette di ispirazione. Michael Stipe è un’autentica icona e continuerà ad esserlo. Non credo in una loro futura reunion: ho letto le dichiarazioni in proposito e penso che la scelta fatta abbia scritto veramente la parola fine sulla storia di una band unica.

Il metal degli anni '80 rappresenta un punto di riferimento per gli artisti di oggi o è un mondo ormai superato?
Io penso che molte band di oggi debbano tutto a quelle degli anni ’80, come del resto anche queste ultime erano debitrici nei confronti di nomi storici quali Black Sabbath, Led Zeppelin e Deep Purple, tanto per citare mostri sacri del genere. Negli anni molto è cambiato. Sono nati “sottogeneri” che a me non hanno mai entusiasmato (ad esempio il Nu-metal): io rimango ancorato al sound di gruppi quali Iron Maiden, Def Leppard, Judas Priest e Metallica, ho scoperto il metal grazie a loro. Amo particolarmente i Maiden e i Leppard perché hanno continuato sempre a mantenere una loro identità, senza guardare alle mode del momento. Poi mi piacciono le sonorità più hard rock dei primi Bon Jovi e degli Europe, ma anche ovviamente quelle degli AC/DC. Avrai capito, dunque, che su questo genere vado un po’ sull’old style!

Arrivano gli anni ’90 e la gente “scopre” il grunge. Secondo te questo genere è davvero esistito o si è trattato di un’invenzione giornalistica per mettere insieme gruppi in realtà diversi tra loro?
Il grunge è stata un’autentica rivoluzione o forse no, non spetta a me giudicare. Certo è che, quando uscì nel 1991 “Smells like teen spirit” dei Nirvana, tutti capirono che qualcosa stava cambiando. Ritengo quella canzone, ormai diventato un vero e proprio anthem, uno spartiacque fra ciò che la musica era allora e quello che sarebbe diventata dopo la sua pubblicazione. Un album come “Nevermind”, recentemente ripubblicato per festeggiare il ventennale della sua uscita, ha segnato un’epoca, anche se, a dire il vero, il grunge esisteva anche prima dei Nirvana, ma loro l’hanno portato all’attenzione dei media e soprattutto in classifica. Io, però, ho sempre preferito i Pearl Jam: Eddie Vedder ha una voce strepitosa e “Ten” è per me il disco rock più bello degli anni ’90.

Gli anni ’90 sono anche il “teatro di scontro” del brit pop: Oasis e Blur oggi non ci sono più, ma hanno avuto grande importanza.
In Inghilterra quelli furono gli anni del dualismo Oasis-Blur: io mi avvicinai prima al mondo dei Blur, rimanendo colpito dalle sonorità dell’album “Parklife” (quello di “Girls & Boys”). Poco dopo poco scoprii i fratelli Gallagher: fu una folgorazione! La loro musica ancora mi affascina, e riascolto spesso tutta la loro produzione con piacere. Oggi, dopo lo scioglimento, mi schiero con Noel: il suo disco solista è ormai mio compagno fedele in macchina quando viaggio. Al contrario, non amo tantissimo i Beady Eye di Liam. Tornando al dualismo, i Blur presero in seguito una strada più sperimentale e particolare, gli Oasis rimasero invece più fedeli al sound delle origini. Comunque mi permetto di citare anche i Verve di Richard Ashcroft, per me la band più geniale di quegli anni: “Bitter sweet symphony” rimarrà la canzone più bella del decennio, più di “Wonderwall” dei Gallagher. A dirla tutta, però, credo che senza gli Stone Roses il brit pop non sarebbe mai esistito: sono stati Ian Brown e soci i veri precursori del genere.

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