Francesco Cataldo, la chitarra dell’anima

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Francesco Cataldo, chitarrista siracusano, ha portato il suo jazz, che profuma di Sicilia, a New York dove ha saputo affascinare uno dei più grandi contrabbassisti del momento, Scott Colley. Con Colley ha inciso Spaces, un album che ha avuto consensi in tutto il mondo. In Giulia, Francesco spoglia la propria musica e in un album del tutto acustico, senza timore, ci mostra la sua anima. “ Il suono di chitarra classica e la chitarra acustica  baritona in “Giulia” è il frutto di una lunga ricerca, non solo tecnica (corde, set up…) ma anche e soprattutto introspettiva. Come il cantante cerca per anni la sua voce interiore e fisica, lo strumentista dedica la sua vita alla ricerca del suono che più lo possa “rappresentare” all’esterno, al mondo, al pubblico che ascolta”. Francesco ha inciso Giulia con il grande pianista Marc Copland, Pietro Leveratto e col batterista “in punta di bacchette” Adam Nussbaum. Giulia è in rotazione radiofonica a Chicago, New York, Kansas City e Boston ottenendo ottime recensioni a conferma di come Francesco sia riuscito a entrare di diritto tra i grandi del jazz internazionale.

La tua musica nasce nel silenzio, un “deserto” che riesci a fare dentro di te. Non è un controsenso per un musicista?

Trattandosi di jazz, i modi e i tempi sono diversi. E’ necessario lo svuotamento da formule, costrutti e influenze; non è mai un vuoto sterile, ma un deserto riflessivo. Un processo per liberarsi dagli ascolti e gli studi, che porta a un punto di spaurimento in cui non si hanno riferimenti: è lì che se ne trovano altri e nasce il nuovo. In definitiva, si alternano momenti di astinenza e di fame di musica, un po’ come per il cantautore, anche senza cantare.

“I brani di Francesco, belli come una carezza infinita destinata a perdurare per un lungo viaggio”. Queste parole di Pupi Avati descrivono al meglio la tua musica che è cinematografica, evocativa e rimane dentro come un bel ricordo: un’istantanea da portare con sé. E’ questa la tua caratteristica?

Questa caratteristica mi appartiene e, forse, è anche ossessiva. Scivo per immagini evocative. Possono essere persone, o paesaggi. Fotogrammi che scorrono nella mia mente. A volte un dettaglio, mi cola nell’anima e da lì scaturisce un’ispirazione. Ho bisogno d’immagini: può essere un bambino che gioca sulla piazza assolata di Ortigia, un vicino che accenna un saluto dalla finestra. Le immagini sono i miei testi, che danzano sui temi che scrivo. Forse per questo è definita cinematografica.

Una musica così intima, quanto è difficile condividerla?

E’ difficile ancor di più con gli addetti ai lavori che sono abituati a grandi elaborazioni che nel jazz sono la consuetudine. Come ho detto, non amo i virtuosismi e tutto quello che sovraccarica. Mi piace la semplicità che sa mostrare senza coprire. In questo momento in cui la musica abbonda di effetti speciali, ci vuole coraggio e forse un po’ d’incoscienza. Sono consapevole di andare contromano, ma felice di aver trovato la mia strada. La condivisione fa parte di un processo di maturazione importante, sul quale ho lavorato. Può sembrare un controsenso per un musicista, ma non lo è quando la musica traduce sentimenti e colori dell’anima. Conservo, dopo anni, una timidezza della quale non mi vergogno.

Francesco ti definisci un  jazzista anomalo, che non ama per niente le improvvisazioni. Ce ne spieghi il motivo?

Sono legato alle melodie fisse, che sono i miei punti di riferimento. I temi, per me, sono sculture che si possono illuminare con luci diverse, guardandole da punti di vista differenti, ma devono rimanere quelle sono. L’improvvisazione è una variazione sul tema. Quando scrivo, poi suono i temi cercando di ascoltarli come se fossi fuori da me, come fa un pittore allontanandosi dalla sua tela, per osservarne la luce, le ombre da un’altra prospettiva. Poi la suono a chi mi sta vicino, per capire come la “sentano” ed è incredibile cosa noti mia figlia Giulia, ancora bambina, essendo libera da condizionamenti e pregiudizi.

Quando suoni dal vivo, in che modo, riesci rispettare i tuoi temi con l’empatia e l’emotività del momento live?

Quando scrivo viaggio e dal vivo spero che le persone possano viaggiare con me. Quando suono un brano live cerco di farlo come se fosse la prima volta, lasciandomi stupire ancora, riscoprendone nuove prospettive. Un po’ come il mare che assume i colori del cielo, sorprendendoci con un caleidoscopio di sfumature. Il vero jazzista insegue la perfezione tecnica e c’è stato un tempo in cui l’ho fatto anch’io, ma oggi non m’interessa: rimango a piedi nudi, a camminare tra i ricordi ad affondare le mani nelle emozioni che sono le cose che vorrei regalare con la mia musica. La perfezione ricercata spasmodicamente, diventa limite. Nonostante ciò, lavoro moltissimo, faccio il mio yoga al piano e con la chitarra, ma quando è il momento di liberare le mie emozioni, lo faccio senza freni.