“Earthway” è l’ottavo album del chitarrista Gabor Lesko. La sua costante creatività nel suonare e nel comporre dimostra che la fusion ha ancora molto da dire, ed è la conferma che quella di Gabor Lesko è una voce importante nel jazz moderno.
Ispirato dall’evoluzione umana, vista come un miracoloso prodigio della natura, Gabor esprime in musica la tensione tra la libertà derivata dal progresso tecnologico (soprattutto nell’ultimo secolo) e il rischio palpabile di diventarne schiavi. Per lui la possibilità di sfuggire a questo rischio sta nella consapevolezza e nell’ascolto, ed è questo che cerca di trasmettere con la sua musica. Otto brani inediti, tutti composti da Lesko con una solida impostazione elettronica (synth, chitarre e bassi elettrici guidano la musica dell’album), spaziano tra il funk, il jazz, la fusion e il rock psichedelico. Gli arrangiamenti articolati e complessi di Lesko sono attraversati da imponenti assoli e retti da un serrato interplay di altissimo livello tra i musicisti – tutti acclamati protagonisti del panorama jazzistico e fusion internazionale. Con tanti ospiti internazionali e non, tra cui Eric Marienthal al sax soprano, Jimmy Haslip e Federico Malaman al basso e Dave Weckl alla batteria, Lesko esplora in questo energico lavoro nuove possibilità sonore, trasportando l’ascoltatore in un mondo a cavallo tra il più raffinato virtuosismo musicale e la pura espressione artistica.
Ascoltando il tuo album vi vengono subito in mente i dischi della GRP, l’etichetta di Dave Grusin e Larry Rosen. Quanto hanno influenzato quei dischi la tua formazione musicale?
Indubbiamente sono un appassionato della GRP. Un’etichetta come la GRP mi è più che nota, tanto che ho diversi album di quell’epoca d’oro, tra gli anni ’80 e ’90. Fa indubbiamente parte dei miei percorsi.
Come è nato “Earthway”?
Scrivo da tanto tempo. Sono professionista da circa 30 anni. Nell’ultima fase della mia carriera compositiva sono ritornato al mio primo amore, che è il jazz fusion, anche perché a me piace cambiare. Ogni disco non è uguale all’altro. Il precedente “Finger Fusion Project”, che vedeva la partecipazione tra gli altri di Simon Phillips era più progressive. Quest’album è nato anche grazie alla pandemia. Avevamo tutti più tempo a disposizione e stando in casa, con uno studio a disposizione, mi sono buttato sulla scrittura dei pezzi. In genere ci metto quattro anni per fare un disco nuovo. Questa volta invece meno di un anno e mezzo dal precedente lavoro. E’ stato fatto tutto su Internet. In passato univo l’utile al dilettevole registrando session in occasione di clinic e viaggi. Per esempio il disco precedente è stato fatto a Los Angeles. Invece “Earthway” i musicisti coinvolti hanno registrato nei loro studi. E’ stato forse più difficile da fare, ma sicuramente molto stimolante. Ho lasciato una base tipo midi, dove davo l’idea di quello che volevo, e dall’altra parte i musicisti coinvolti ci hanno messo del loro.
Scorrendo i credits ci sono musicisti importanti. Penso a Eric Marienthal al sax soprano e Dave Weckl alla batteria. Come sono nate queste collaborazioni?
Con Eric Marienthal c’è una collaborazione che va avanti da anni. Lo avevo conosciuto in occasione di un concerto al Blue Note e abbiamo suonato insieme anche in festival jazz. Tramite lui ho avuto i contatti con Dave Weckl, visto che suonavano insieme nella Elektric Band di Cick Corea. La cosa bella è stata la line up di ogni brano. In questo album sono stato anche regista e produttore, e quindi ho diversi musicisti per ciascuno dei pezzi. Forse perché ho avuto la libertà di contattare questi amici che ho conosciuto negli anni.
Sappiamo che sei sponsorizzato da Gold Music per le chitarre Schecter, Cordoba e ENGL, e da Aramini per Lakewood. Quali strumenti usi di più?
Io sono soprattutto un musicista da studio e ho lavorato molto con tanti artisti e nella realizzazione di musica da film. Uso abitualmente una ventina di chitarre, tra cui Lakewood M-54, uno strumento ormai introvabile, visto che è stata realizzata con il palissandro brasiliano che ora non è più consentito per la realizzazione di chitarre. Ho poi un’altra Lakewood con una preparo il mio repertorio per i concerti acustici dal vivo.
Abbiamo accennato prima al lockdown dello scorso anno. Come senti che sarà la ripresa per i concerti live?
Io sono molto positivo. In realtà la musica dal vivo è sempre stata un discorso molto complesso. Le possibilità in Italia non sono tante. Ho sempre suonato di più all’estero perché qui manca l’abitudine della gente di andare ad ascoltare musica di un certo tipo. La musica d’ascolto non è facile in Italia. Però in questo momento trovo che c’è voglia di fare e uscire e quindi siamo positivi. Ci sono tanti contatti per il 2022, ma arrivano concerti anche per questo periodo. Sono produzioni molto costruite e molto orchestrali.
Che tipo di formula adotti per i tuoi concerti?
Ho girato il mondo come chitarrista acustico e quindi mi muovo tra fusion e finger style. Se vado da solo lo spettacolo è prettamente acustico e suono percussioni e canto anche qualcosa, e poi improvviso solo con la chitarra acustica. Poi ho il quartetto o il quintetto (con Eric Marienthal) dove viene fuori più il mio lato positivo negli arrangiamenti.
A quali brani di questo nuovo album sei più affezionato?
I brani sono come dei figli. Per questo è difficile rispondere a questa domanda. In realtà il disco è molto simile agli altri a livello di scelta. C’è sempre un brano, una ballad, dove io tiro fuori la mia liricità come “Still Here For You”. Poi c’è “Earthway”, che dà il titolo all’album, che è un brano scritto 20 anni fa, cui ho voluto dare nuova vita e che reputo una delle mie migliori composizioni. Infine cito “Push It”, un pezzo dove esce molto l’arrangiamento, il groove e la batteria di Sophie Alloway. E’ una giovane batterista, che ho scoperto per caso. Suona con i Lydian Collective, band sconosciuta. Mi ha stupito perché ha una musicalità e una consistenza fantastici.