Demetra e la musica che basta a se stessa: dialogando con Tenedle

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Alla vigilia della pubblicazione del suo nuovo album di canzoni inedite, intervistiamo Dimitri Niccolai, in arte Tenedle, vecchia conoscenza della galassia Ululati dall’Underground, con cui ha pubblicato ben tre dischi per U.d.U. Ululati Records.

Tenedle

Cittadino del mondo, musicista totale alla continua ricerca di nuovi equilibri al crocevia tra canzone d’autore, rock, elettronica, poesia, arti visive e teatro, Dimitri Niccolai ha appena completato le registrazioni del suo nuovo album di studio, dal titolo “Demetra”, atteso per inizio 2023. Ad anticiparlo sarà il singolo The Gift, perfetta elettro-pop song uptempo dal respiro melodico sognante e aperto. Cogliamo l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con l’artista fiorentino trapiantato ad Amsterdam.

La copertina del singolo

AH: Partiamo dal titolo del tuo nuovo lavoro: “Demetra”, declinazione femminile di Dimitri e, al tempo stesso, dea della Natura e del raccolto per gli antichi Greci. Nel tuo percorso artistico ci hai abituati a scelte sempre estremamente ponderate riguardo ad ogni dettaglio, per cui mi aspetto che questo nome abbia per te un significato centrale rispetto ai temi del disco. Ce ne puoi parlare?
DN: Sono ancora molto affezionato all’idea di intitolare i miei dischi con un’unica parola. Il fatto che “Demetra” sia la versione femminile del mio nome parla già dell’intento. Il tentativo di dar voce alla mia parte femminile, appunto, come avvenuto con l’impossessarsi delle poesie di Emily Dickinson otto anni fa… A dire il vero una ricerca che parte da molto prima, dai miei vent’anni. Il titolo mi piaceva già solo per questo. Poi, come tu ben scrivi, la Dea greca, come Isis per l’Egitto prima ed il mito della Dea Madre ancora prima – culture e civiltà che ponevano il femminile al centro di tutto, della creazione e della creatività (opposto per forza alla distruzione), simbolo di fecondità, ciclicità, delle stagioni, dei raccolti e dei tempi della natura, direi dell’equilibrio – mi hanno ispirato molto. Cose che noi maschietti in gran parte “squilibrati” da (quasi) sempre non solo non contempliamo, ma tendiamo ad asfaltare (orribile, bruttissimo, negativo gergo, mi scuso, ma calzante) con la nostra indole violenta. Diciamo che mi sono ritrovato negli anni ribelle alla psicologia e ai modi maschili (ho scritto pezzi di questo genere in “Vulcano” e “Alter“). Senza adottare bandiere, stereotipi o “ismi”, che non amo, ho colto l’occasione per parlare di maternità, terra ed ambiente, sessualità, lotte, sempre nell’incapacità di impossessarmi di quello che cerco e con gli spazi limitati di una canzone, e di un disco.

AH: Ogni tuo nuovo lavoro è in qualche misura figlio del precedente, ma al tempo stesso segna uno scarto. E’ come se, pur utilizzando sempre il medesimo apparecchio fotografico, nel passaggio da un soggetto all’altro avvertissi la necessità di una diversa messa a fuoco e di una diversa prospettiva. Com’è cambiato nel tempo il tuo modo di fare musica, dalla composizione fino alla registrazione?
DN: Potrei dire di avere musicalmente due anime, una tremendamente meditativa, astratta e sperimentale ed una assolutamente scalmanata e “popolare”. L’altalena dei miei dischi in questo senso è evidente ormai, ma non mi crea più alcun problema. Sono “inetichettabile” e riconoscibile… Che fortuna! Almeno secondo la stampa di mezza Europa, e questo mi dà gran gioia, l’obiettivo primo. Personalmente sento sempre la necessità di realizzare qualcosina di divergente dal precedente lavoro. Ora, ovviamente, dopo anni di ricerca, consapevolezza e ultimamente anche “nuovi” studi, credo di aver perfezionato sia il suono che gli arrangiamenti. Devo precisare che nel frattempo ho realizzato e pubblicato “Glossophobia” (2020),  album di musica elettronica a tratti astratta, e “Shakespeare” (2021), raccolta di composizioni orchestrali di musica – chiamiamola così – “per film”. Questi lavori non figurano nel “nostro” mondo della canzone ma sono stati fondamentali per me anche per arrivare a “Demetra”. Ed invito, per prepararsi, ad ascoltarli aspettando l’uscita del disco. Durante i miei studi come Sound Designer e Compositore per Immagini, negli ultimi due anni qui in Olanda, ho lavorato molto anche alle orchestrazioni e, appunto, perfezionato suono e metodi di lavoro.

AH: “Odd to Love”, il tuo lavoro dedicato a Emily Dickinson a cui hai accennato poco fa, ha aperto la strada all’impiego della lingua inglese, che hai poi continuato ad utilizzare molto efficacemente in “Traumsender” e anche in questo nuovo album. Volevo chiederti se la scelta è stata dettata prevalentemente dall’opportunità di aprirsi ad un pubblico più ampio o se hanno pesato altre motivazioni.
DN: Con le dovute proporzioni, la decisione è vicina (e filosoficamente ispirata) alle dichiarazioni di Pasolini sulla scelta di passare al cinema come “altro” linguaggio oltre sessanta anni fa. Si potrebbe dire che nei confronti dell’Italia – e non dell’italiano come lingua, che adoro e mi manca – sia stata la motivazione principale. Una sorta di protesta, provocazione, ma io ovviamente non ho (e non mi permetto di pensarci nemmeno) la statura del nostro piu’ grande poeta del ‘900. Lo stato culturale in cui versa il nostro Paese è ancora più misero di allora. Leggiamo pochissimo, parliamo troppo senza conoscenze, non ascoltiamo per niente, siamo tremendamente violenti, brutali. Volevo staccarmi, sono stanco di certi aspetti del mio Paese. Abbiamo un patrimonio culturale immenso e quasi non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro; io poi avrei fatto la mia piccola parte, avendo scritto – credo – abbastanza in 5 dischi e altre manciate di canzoni meno ufficiali, se le parole sono importanti, nella mia lingua. Non e’ detto che non vi sarà mai un ritorno, ma probabilmente solo perché mi manca il giocare con la mia lingua. L’inglese ovviamente mi ha permesso di espandere la mia musica e le mie idee con un buon successo, direi, visto che – a parte l’idioma – non ho cambiato niente nei miei modi e concetti. Sono molto contento, sia per la diffusione della mia arte che per la ricchezza che porta l’incontro con persone nuove, in certi casi diventate amiche ed amici. Non so in quanti altri campi succede.
AH: Domanda ascrivibile alla deformazione professionale: pensi che il suono della lingua inglese, con la sua ampia disponibilità di monosillabi, abbia in qualche misura ampliato le tue facoltà espressive in qualità di compositore?
DN: Non credo. Io sono un musicista e solo molto dopo uno “scrittore”. Ho sempre scritto i testi seguendo la mia indole musicale e ritmica, scrivendo le parole dopo la musica e quasi mai viceversa. Sono passato dall’inglese (da giovane) all’italiano, poi all’olandese (per il lavoro in teatro) e ancora all’inglese con lo stesso approccio. A volte si tratta di allungare, aumentare note o suoni, a volte di diminuire. La ginnastica è la stessa. Certo, in passato erano esercizi, ma se c’è un minimo di padronanza tra lingua e senso del ritmo, ora puoi solo divertirti ed è tutto ugualmente stimolante. Se hai una melodia in testa, su un pezzo, puoi concedere poco, devi adattare per forza le parole. Vero che ogni lingua ha i suoi “suoni e spigoli”, ma questo almeno per me non ha influenza sul modo di comporre musica o melodia. Le parole vengono comunque quasi sempre dopo.

AH: Il tuo percorso è costellato di progetti – che è forse improprio definire “collaterali” – di contaminazione con altre arti. La musica non basta a se stessa o l’arte non ha confini? Che Gigi Marzullo mi perdoni…
DN: Certo che la musica basta a se stessa, e non esiste modo migliore che ascoltarla ad occhi chiusi, senza additivi. Oltretutto fruirne in senso “spirituale” o rituale, in ascolto assoluto, ti porta in altre dimensioni ma in modo soggettivo, personale, cosa che poco altro riesce a farci fare in questa vita. E’ sempre la musica, il suono, come il silenzio, che rafforza le immagini, anche nel cinema, mai il contrario. Puoi fare un capolavoro con il suono su immagini di cattiva qualità ed il risultato può essere strabiliante, ma non avrai mai un bel film se gli metti sotto della pessima musica, o brutti suoni. Detto questo, le immagini in movimento, la pittura, la fotografia, direi l’arte visiva in genere, ed ognuna di queste discipline hanno tutte un ruolo “complementare” alla mia musica o ad un mio sviluppo interiore. Dipingere o disegnare ad esempio, mi aiuta a “non pensare”, è una sorta di meditazione. Mi piace ancora giocare e divertirmi: la creatività, “purtroppo”, è un elemento costante del mio vivere, e la lascio fluire. Negli ultimi anni con i video ho sperimentato un linguaggio nuovo, che mi piace e continuerò ad approfondire.
AH: A proposito di progetti “estemporanei”, a settembre la Filarmonica di Haarlem, in Olanda, tuo Paese d’adozione, ha ospitato una tua composizione piuttosto singolare in cui hai avuto la temerarietà di coniugare Prokofiev e il rap. Come si direbbe a Roma, il cross-over ti spiccia casa! Puoi raccontarci com’è nato questo singolare progetto e come hai vissuto questa esperienza?
DN: Mi è stato chiesto di scrivere, in pochissimo tempo, devo dire, una composizione per Orchestra che desse spazio ad un giovane rapper locale e due altrettanto giovani solisti, batterista e pianista. Una cosa molto all’olandese, un progetto più propenso ad un’operazione socialmente inclusiva che di importanza artistica. Si trattava di far incontrare due mondi distanti, in ogni senso. Io ho ovviamente cercato punti di convergenza “musicali” tra l’hip-hop e la musica classica e il tema dei “Capuleti e Montecchi” da “Romeo e Giulietta” di Prokofiev mi venne subito in mente durante il primo incontro. Tutto si prestava ad una “storia moderna” e quel tema suona nell’immaginario collettivo come molto celebre. Poi ho composto le partiture per archi, arpa, corno, clarinetto, flauto e trombone per accompagnare il rapper e i solisti sulla stessa base di drum machine ed elettronica. La cosa e’ riuscita molto bene, direi, ed è stato un grande piacere lavorare alle prove con i tre ragazzi provenienti da quartieri popolari di Haarlem e l’orchestra giovanile del Kennemer (KJO). C’è stata grandissima sintonia con il direttore dell’orchestra Matthijs Broers, e, dopo la performance alla Philharmonie, co-organizzatore dell’evento, è in embrione un’altro tipo di collaborazione, ma ancora è presto per parlarne… Quando succedono cose del genere hai bisogno di valige più grandi in un colpo solo. Sono le cose belle di questa professione, che appunto nascono dopo tanto lavoro e studio.

AH: In uno slancio di ottimismo che prevede l’esistenza di un futuro che ci riguardi, vorrei infine chiederti quali sono i tuoi progetti prossimi e se questi includono delle date live per celebrare il debutto in società della bella Demetra.
DN: Se vogliamo continuare a seguire visioni, l’obiettivo che darebbe a “Demetra” il suo giusto peso sarebbe suonare con almeno un quartetto d’archi, un piccolo ensemble classico, l’elettronica e un paio di amici fidati per una ventina di date in giro per il mondo. Uno spettacolo assolutamente ricco di contenuti idee, immagini, con la teatralità di una performance di canzoni contemporanee e molto altro. In Italia la vedo dura ed io mi sono abituato, negli ultimi anni, a budget più dignitosi e coerenti con questa professione. Al momento non ci sono cose in calendario, ma assolutamente non mi rifiuterò di andare incontro a persone che mi invitino per affetto e stima, quindi credo che per l’uscita del disco, per il nuovo anno, qualcosa di bello verrà fuori. Fermo restando l’ottimismo della domanda. Perchè siamo in un disastro totale…