Si intitola “Limbo” l’ultimo disco del contrabbassista Mauro Mussoni pubblicato dall’etichetta Emme Record Label. Un album che spazia tra diversi linguaggi della storia del jazz passando dall’hard bop, al funk e l’even eights. Completano la formazione che ha partecipato a questo progetto Nico Tangherlini al pianoforte ed Enrico Smiderle alla batteria, con due ospiti di rilievo come Nico Gori al clarinetto e sax e Pepe Ragonese alla tromba e flicorno. Ecco il racconto di Mauro Mussoni su questa nuova avventura.
Partiamo dal titolo di questo disco Limbo che ci fa pensare a qualcosa di sospeso: ha un significato particolare per te?
Immagino un limbo come un luogo indefinito dove le cose sono appunto sospese, quasi in attesa; questa è la condizione essenziale che le accomuna. Avevo diverse composizioni che erano rimaste in questo limbo in attesa di essere riscoperte e rivissute. Ho cercato un accostamento di stili diversi nella track-list; questo ha creato una condizione di tensione che non mi aspettavo ma che mi è risultata soddisfacente. Alcuni brani hanno una sonorità e un concetto più moderno mentre altri richiamano la tradizione del secolo scorso. L’idea di unire mondi sonori e linguaggi così diversi mi ha rimandato ad un limbo temporale in cui le epoche si fondono. Del resto il jazz vive e si evolve anche e soprattutto grazie alle forti radici acquisite nel passato e alle varie contaminazioni. Se si considera in ultimo che lo sviluppo dell’album è avvenuto in un periodo veramente strano in cui tutto era sospeso…un simile titolo era quasi d’obbligo!
In questo disco per certi versi confluiscono molti linguaggi appartenenti alla tradizione del jazz. Ce lo vuoi descrivere brevemente?
Da ascoltatore apprezzo tanti generi che mi influenzano indubbiamente quando penso e scrivo. Nella mia esperienza musicale ho attraversato tantissime sfumature del jazz ed alcune mi sono sicuramente rimaste nel cuore, nella mente e nelle mani. Penso che anche questo si possa definire un limbo dove tutto è collegato anche se diverso. Il collegamento siamo noi e la nostra capacità di far convivere il tutto e condividerlo. Non posso che rimanere affascinato dalle potenzialità che il post-bop e le nuove avanguardie ci propongono di continuo. Le sonorità moderne offrono tantissimi spunti nuovi e non vanno assolutamente ignorate. Tra i miei obiettivi c’è quello di trovare soluzioni utili a maturare uno stile affine alle mie origini e ai miei gusti musicali. Credo che nell’album si possano cogliere richiami alla tradizione con incursioni in ambiti più contemporanei confidando nel fatto che le cose risultino plausibili in questa “limbica” convivenza.
Alla luce di questo qual è il linguaggio del jazz al quale ti senti più legato?
Personalmente sono molto affezionato al concetto di bebop ed hardbop, forse perché sono stati i linguaggi con cui mi sono avvicinato al jazz e che ho praticato più spesso. Penso che se pur nella loro complessità abbiano la capacità di portare il messaggio in maniera chiara e di colpire direttamente nel segno.
C’è un musicista in particolare con il quale ti sarebbe piaciuto suonare?
Ci vorrebbero una decina di pagine…ma se proprio devo sceglierne uno solo mi viene subito in mente Wayne Shorter che purtroppo ci ha lasciati da poco. Ho tutta la sua discografia e ho sempre trovato geniale il suo modo di comporre.
Quali sono invece i compositori e i grandi del jazz che nel tuo percorso artistico sono stati fondamentali?
Duke Ellington, George Gershwin, Louis Armstrong, Charles Mingus, Thelonious Monk, Art Blakey, Miles Davis, John Coltrane, Sonny Rollins, Wayne Shorter, Benny Golson, Jaco Pastorius, Freddie Hubbard, Herbie Hancock, Joe Henderson, Cannonball Adderley, Bill Evans, McCoy Tyner, Eric Dolphy…ma anche I Beatles, Burt Bacharach, Stevie Wonder. Potrei citare anche innumerevoli bassisti…praticamente tutti; anche quelli che ho ascoltato senza saperne il nome. Adoro il lirismo di Michel Petrucciani; poi Pat Metheny, Brad Mehldau, Joshua Redman, Avishai Cohen, Roy Hargrove, Michael Brecker. Aggiungerei Hal Crook, Ed Friedland, Mark Levine, David Baker, Marc Johnson. So che molti di questi possono sembrare scontati ma in realtà non lo sono.
Quella della fusione o sintesi dei linguaggi del jazz può essere, dunque, una nuova frontiera o un obiettivo da percorre per i giovani musicisti?
Penso che i musicisti più giovani siano già pienamente dentro a questa sintesi e penso che sia impossibile ignorare tutte le potenzialità del jazz soprattutto oggi che la condivisione è molto rapida. Sopra ho fatto un elenco (incompleto) di musicisti incredibili tra i quali diversi ancora in vita. Essi stessi sono i primi ad evolversi ed a cercare nuove strade, nuove idee, sonorità, soluzioni, contaminazioni… Io li considero come maestri ed esempi da seguire. Tutto si muove velocemente e loro sono al passo e forse ancora più avanti.
Ci vuoi parlare anche del tuo percorso artistico e di studi?
Ho cominciato col pianoforte classico da piccolo. Anche se l’ho presto lasciato penso che mi abbia fortemente influenzato. Ricordo ancora tutto. In quel periodo ascoltavo i vinili dei Beatles, di Louis Armstrong, di Mina…spesso cose a caso. Quello che avevano i miei genitori. L’adolescenza è stata il tempo del rock..Led Zeppelin, The Doors, Jimi Hendrix e chi più ne ha più ne metta. Includiamo anche tutto il periodo grunge e poi il funk. Non posso fare troppi elenchi noiosi e scontati. Poi un giorno qualcuno deve avermi fatto ascoltare Art Blackey per caso e da lì non mi sono più riuscito a scrollare di dosso quella cosa incredibile che suonava così diversa da tutto il resto. Così esotica, misteriosa, ma intensa e che nella sua essenza non teneva conto di nessun cliché. Moderna ma densa di un fascino antico. Da quel giorno ho cercato di farne parte a tutti i costi. Come accennato sopra, gli studi sono partiti inizialmente in maniera privata per poi terminare al biennio jazz del conservatorio. Il percorso artistico ha accompagnato il tutto. Ho apprezzato ed apprezzo tanti generi musicali e questo mi ha dato la possibilità di suonare di tutto e ovunque: festival, rassegne, teatri, jazz clubs, bar, pub, pizzerie, tende, cascate, vulcani… La cosa migliore per far funzionare la musica è la pratica. Con la pratica si ottiene il massimo dell’esperienza. Fortunatamente mi sono sempre cacciato nei guai facendo cose assurde come salire sul palco senza nemmeno la minima idea di brani e repertorio. Non so se ad oggi riuscirei a farlo ancora. In passato l’ho fatto troppe volte. Però mi ha fatto crescere in esperienza. Sto cercando di evitare di fare un curriculum, quindi abbozzo. Per concludere aggiungerei solamente che da qualche anno a questa parte il mio percorso artistico va a braccetto con la necessità artistica, quindi ho cominciato a scrivere e ho pubblicato come leader due album in quintetto: Lunea e Follow The Flow. Limbo è il primo del trio.
La formazione in trio non è l’unica che hai ma senza dubbio esprime una parte di te. Quali sono le potenzialità che può esprimere una formazione del genere?
Tutte. Il piano trio è una formazione che può sembrare essenziale. È vero ma è anche la formazione ridotta più completa che consenta l’espressività a tutto tondo: Lirica, dinamica, ritmica. Ovviamente la timbrica è limitata ma si può ricercare una sonorità ed esprimerla grazie anche alla composizione. Se penso di scrivere un brano per trio ne devo tenere conto ma a volte prendere strade inaspettate può essere una pratica molto più rapida.
C’è qualcosa di nuovo di cui ci vuoi parlare? Un prossimo concerto o magari anche un nuovo disco in cantiere?
Al momento mi sto dedicando a varie cose contemporaneamente. Ci sono in cantiere vari progetti non a mio nome ma con tanti altri musicisti. Vorrei finalizzarli tutti e ci vorrà tanta energia ma tutto sembra andare per il verso giusto. Non li cito per non fare il solito elenco…. e anche un po’ per scaramanzia. Di sicuro ho già diversi brani per un nuovo album del quintetto e qualcuno anche per questo trio: perché Limbo è un punto di partenza.