Club to Club, anno XXI, ovvero mutare per rimanere se stessi

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A volte capita. Capita di essere a casa e sentirsi lontani, non riconoscere volti e luoghi, pur sentendosi accolti. Spazi enormi e scarnificati si trasformano in culle dove ritrovare il calore amniotico. Ossature industriali riverberano bagliori inaspettati e divengono tramonti romantici. Capita al Club to Club 2023, 4 novembre.

Foto di Pierpaolo Bottino

Il miracolo si compie da 21 anni, Torino che brilla di meraviglia, ammiccando alle metropoli del mondo. Il senso degli spazi, occupati e svuotati, ridefiniti nella dimensione del sé. Il corpo che trascende. Rimpiango gli anni e il vigore d’un tempo che mi avrebbero fatto passare indenne attraverso 4 giorni di eventi straordinari, tra concerti e approfondimenti musicali. Mi devo accontentare di un’unica serata e sono fortunata perché nell’arco di poche ore scivolo tra le pieghe sonore di tre set imperdibili. Il Club to Club, festival d’avanguardie, regala da sempre fantastiche scoperte; rende famigliari artisti  noti e offre nuovi spunti d’ascolto.

Yves Tumor (Foto di Pierpaolo Bottino)

Conquisto, sola, uno spazio comodo e non troppo distante dalle prime file quando Yves Tumor dà il via alla sua performance.  Riduttivo parlare di semplice concerto mentre chiama la folla a sé trascinandola in un maelstrom di visioni dirompenti. 

Nel giro di pochi minuti non riesco a muovermi, educatamente compressa da adepti che seguono attenti i movimenti repentini sul palco e lo accompagnano con la voce.   “You look so magical”.  La fisicità di un corpo, che progressivamente si svela sempre più, è tutt’uno col risuonare della voce. Yves canta e incanta con tutto se stesso, mi strozza con l’infinita cintura borchiata, mi lascia senza respiro. Mi ipnotizza con lo sguardo folle e dissociato.  Un’ode all’autoaffermazione, al di là di ogni dogma o categoria, un essere all’infinita potenza. La naturalezza dell’essere, appunto, anche nei momenti più estremi. Il suono negli anni è divenuto più sfaccettato in una fusione di elettronica, wave, post punk, glam, noise e la resa è affidata ad un eccellente ensemble di musicisti che rendono il progetto sempre meno individualista. Intanto io non so più chi sono, sciolgo in adrenalina, la testa che ondeggia, il ritmo mi percuote… “It felt like someone else was looking up at mе like I was a newborn baby”. Epifania di meraviglia, mi risveglio. “When you wake up do you think of me?” urla Yves.  Non può che essere così.

King Krule (foto di Pierpaolo Bottino)

Vago per il padiglione vagamente narcotizzata dal caldo, in cerca di liquidi e armonie quiete per placare la tensione; confido in King Krule. Il privilegio di ascoltarlo oltre la barriera che separa pubblico e artista. Un’intimità sonora insperata che comprime le estensioni dei padiglioni post industriali.

King Krule è atmosfera, sound suadente che rimanda al fumo di un jazz club londinese, un whisky aromatico degustato la notte, che ubriaca, crea frastuono, rimbomba nella testa e fa sprofondare nel vortice dell’io. Anni fa quando ascoltati la prima volta Dum Surfer mi disturbò, generò pelledoca, la sensazione rivive ad ogni ascolto. L’estro sta nell’evocare un mondo d’antan e rovesciarlo il secondo successivo in un fragore post contemporaneo quasi fastidioso.  Qui tutto si trasforma, lo spazio diventa pesante. Space Heavy. Forme e dimensioni si alterano, il vuoto si apre, il timbro cavernoso di Archie si prende tutto e mi porta con sé, tra anime turbate, storpiature urbane, amori malinconici e bellezza sublime. Spazio e tempo si deformano come in una colata di Dalì. “I separate, I separate, I separate into the minutest minuscule gaps, of time and space”, una dichiarazione di intenti, un esito scontato anche per me. Intanto Ignacio Salvadores un po’ accarezza il sassofono, un po’ assalta la prima fila in un crescendo sinistro che esplode in devozione e fascinazione totali. Il resto della band, maestosa, asseconda il flusso. Credevo di rilassarmi e invece sono più tesa di prima. Easy Easy! La stanchezza pesa su gambe e schiena. Aspetto qualcosa che mi porti a casa leggera. 

Flying Lotus (foto di Pierpaolo Bottino)

Flying Lotus è un musicista imprescindibile per questi ultimi 20 anni. L’ho ascoltato come tale, passaggio dovuto in questi anni, senza particolare partecipazione emotiva, constatandone l’abilità generativa di groove attraverso campionamenti, manipolazioni, espressività verbale.

Nascosto con la console dietro una fine grata illuminata di proiezioni psichedeliche, dopo qualche brano esce col microfono, veleggia sulla folla adorante, mi sfiora appena. Sono stupefatta dal poderoso rimbalzo di immagini che si rincorrono, gli ambienti fisici sfociano nel virtuale. Dove siamo? Torino o L.A.? Si riscrivono i confini, si mette in scena un Cosmogramma. Il live è più serrato del previsto, i corpi fluttuano domati dal beat hip hop, techno, alien jazz. Volo a casa, inebetita e leggera come un fiore. A letto le orecchie ronzano come di consueto, un segno di vita. Sottovoce una preghiera: Praise a Lord who chews but which does not consume… Sia lode ad Xplosiva. Sogno zeppe e slip glitterati, voci roche e vecchi vinili, bottiglie d’acqua negate dall’idiozia di un QR code…