Mario The Black Di Donato: il metal che piacerebbe anche a Dante Alighieri

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Le sue composizioni musicali riflettono un animo inquieto e ribelle pronto a scavare nella psicologia umana e nei pensieri più profondi che inevitabilmente martellano l’uomo in questa realtà terrena dove i problemi e la cattiveria superano la tranquillità e l’onestà. Mario “The Black” Di Donato è oggi riconosciuto come uno dei padri dell’heavy metal italiano. E, dopo tanti anni di carriera, album e formazioni diverse, la musica di The Black è riuscita a varcare anche i confini nazionali, come dimostrano i numerosi concerti che l’artista abruzzese tiene in tutta Europa.
Mario Di Donato è anche un’eccellente artista. Le sue opere sono molto richieste e veicolano con l’immagine il messaggio che parte con la sua musica: The Black ci invita a credere nella vita e soprattutto a non abbandonare mai la fede. Ecco cosa ci ha raccontato.

Innanzitutto vorrei soffermarmi sul tuo album più recente. “Gorgoni” è un lavoro decisamente introspettivo. Come nasce questo disco e cosa ti ha ispirato?

Questo nuovo lavoro, pubblicato come i precedenti dalla Black Widow di Genova (in CD e in doppio vinile, nda), è dedicato alle omonime figure della mitologia greca, ossia le tre sorelle Medusa, Steno ed Euriale. Da bambino ero spaventato dalle Gorgoni, in particolare da Medusa, che, per volere di Persefone, era la custode degli Inferi. Le Gorgoni rappresentavano la perversione nelle sue tre forme: Euriale rappresentava la perversione sessuale, Steno la perversione morale e Medusa la perversione intellettuale.

Si può dire che hai realizzato un concept album?

Il nostro progetto cerca da sempre di abbinare l’arte al doom metal. Per “Gorgoni” è stato fatto un lavoro decisamente coerente (con Di Donato suonano nei The Black il bassista Enio Nicolini e il batterista Gianluca Bracciale, nda). “Monstrum” e “Medusa” sono brani dai classici stilemi doom ma tuttavia dotati di una struttura ritmica molto dinamica. Poi ci sono “Perseus”, “Phorcus”, “Steno”, “Pegasus”, “Serpentis”, “In Lapidem Muto”, “Altamir” e “Metamorphoses”, brani che approfondiscono la vicenda delle Gorgoni.

Anche questo disco presenta testi in latino, lingua che contraddistingue la vostra produzione. Quando hai sentito l’esigenza di comunicare in questa lingua?

La scelta di cantare in latino può sembrare insolita, ma per noi è stata una scelta decisamente coerente. Già ai tempi dei Requiem alcuni nostri brani avevano titoli in latino e cantavamo qualche strofa in questa lingua. E proprio durante il periodo dei Requiem ho capito che era necessario dare una svolta alla mia proposta artistica. Ci fu un episodio in particolare. Il primo album dei Requiem “Ex Voto” venne accolto molto bene dalla critica si in Italia che all’estero. Però dall’Inghilterra arrivò una critica piuttosto chiara legata al modo in cui usavamo la lingua inglese: questo nonostante il nostro cantante parlasse perfettamente l’inglese e studiava lingue. Questo episodio ha fatto si che credessi ancora di più nelle mie potenzialità. L’inglese è senza dubbio la lingua del rock e di alcuni miei miti come Jimi Hendrix e i Black Sabbath. Però in me stesso c’è un’autorità che mi dice di non essere secondo a nessuno. E così ho cercato di creare una cosa diversa, personale, che potesse reggere il confronto con le produzioni di Oltremanica. La scelta è ricaduta sul latino, lingua che si amalgama moltissimo con la proposta musicale di The Black.

Tornando a “Gorgoni”, il disco ha avuto un’ottima accoglienza anche all’estero. Segno che il vostro sound è ormai riconosciuto ovunque. A cosa attribuisci questo successo?

Per quanto riguarda “Gorgoni” ha influito anche la produzione molto accurata. La Black Widow, la mia casa discografica, per questo lavoro si è spesa molto. Ormai, tra album, tributi e compilation, ho realizzato con loro più di 10 dischi e bisogna riconoscere la grande competenza e professionalità con cui si cimentano nelle produzioni. Colgo l’occasione per annunciare che presto saranno ristampati su CD alcuni miei album pubblicati solo su vinile, tra cui “Refugium Peccatorum”, un disco ricercato visto che all’epoca era uscito in edizione limitata in sole 668 copie…

Come mai questo numero insolito?

Forse qualcuno si aspettava un altro 6 finale. Ma ci tengo a dire che io non sono predisposto a certe cose…

Torniamo a “Gorgoni”. So che avete fatto diversi concerti e ci sono stati riconoscimenti importanti.

In Italia per chi fa un genere come il nostro è molto difficile trovare canali di promozione. Nel mio caso però posso dire che sono riuscito a fare quello che desideravo. Abbiamo portato “Gorgoni” in concerto in tante città, tra cui al “Doom Festival” di Roma dove siamo accolti sempre con grande calore. E poi lo scorso dicembre sono stato insignito del prestigioso Premio internazionale “Dante Alighieri” per la sezione musica.

Hai avuto una carriera decisamente incredibile. Proviamo a ripercorrerla. Innanzitutto i tuoi esordi…

Sono stato uno dei primi in Italia a suonare metal e quindi doom. Sul finire degli anni ’60 mi arrivavano i 45 giri dall’Inghilterra che mi divertivo ad accelerare sul piatto. Nel 1971 suonavo con i Respiro di Cane, formazione in cui cantavo e suonavo la chitarra con il bassista Enio Nicolini, che oggi suona con me nei The Black, ed il batterista Lucio D’Albenzio. In repertorio non mancavano cover dei Black Sabbath e dei Grand Funk Railroad. Subito dopo nacquero gli UT, che in latino è il nome della nota musicale “Do”, e il cui stile era un po’ mistico/medioevale. Nel 1984 formai gli U.T. (Unreal Terror) dove avevamo un repertorio di brani sia in inglese che in italiano. Il progetto venne accolto molto bene. Ricordo un’ottima recensione di Beppe Riva su Rockerilla. Però dopo alcune divergenze di idee, lasciai e fondai nel 1988 i Requiem. Mi andai a cercare i vari componenti. Volevo fare un combo originale e con idee ben precise: un gruppo mistico. Il progetto riuscì e facemmo molti concerti. Il nostro era un misticismo piuttosto celebrativo, con le croci regolari.

Nel 1990 si conclude il progetto Requiem. E qui arriva The Black.

In quel periodo sentivo l’esigenza artistica di fare qualcosa in più. Con i Requiem cantavamo ancora in inglese. Io invece volevo dare uno stile più italiano e votato all’arte, considerando anche che sono anche un pittore (buona parte delle copertine dei dischi di The Black sono tratte da opere realizzate da Mario Di Donato, nda). Decisi così si usare il latino e nello stesso tempo di addentrarmi maggiormente nel genere doom come nessuno allora aveva mai sperimentato. Forse nemmeno adesso in tutto il pianeta esiste un simile progetto.

In questi anni hai collaborato con numerosi artisti. Quali ricordi con particolare emozione?

Sicuramente quella con i Santa Sanctorum, il gruppo di Steve Sylvester, con cui ho realizzato due pezzi, tra cui “Black Sun”. Un’altra collaborazione che ricordo con piacere è quella con una band di Pescara, i Sistema Informativo Massificato, che nel 1994 realizzò un disco con la Wea. Suonai in un brano dell’album.

Quando invece vi siete resi conto che The Black iniziava ad avere seguito anche all’estero?

Ce ne siamo accorti quando abbiamo suonato all’Open Air ad Amburgo. C’era pubblico proveniente da mezza Europa e il nostro stand venne preso d’assalto: c’erano ragazzi che avevano tutta la nostra discografia. Questo fatto mi ha sorpreso molto. C’è una grande considerazione all’estero per la nostra proposta, ma anche in Italia non possiamo lamentarci.

Quando invece rientrerai in studio per realizzare nuovo materiale?

Con Steve Sylvester c’è l’idea di fare insieme un disco dedicato alle fobie umane. Il titolo del progetto è “Metus Ostilis”, che significa “paura del nemico”. I pezzi sono stati scritti tutti da me. Però non so al momento cosa succederà: ci sono varie idee al riguardo e con Steve, che reputo un grande artista, ci confronteremo presto. Inoltre, con la Black Widow c’è in programma un’opera a nome Mario “The Black” Di Donato, dove suonerò tutti gli strumenti, ad eccezione della batteria. Si tratta di una sorta di opera omnia, senza contaminazioni esterne, e che avrà un tocco personale e profondo.

Cosa rappresenta per te la pittura?

La pittura è l’arte che insieme alla musica amo di più. E grazie a quest’altra mia passione ho avuto la fortuna di conoscere ed apprezzare persone, viaggiare ed inviare messaggi all’esterno. Con l’esposizione di tele e disegni c’è un contatto immediato con lo spettatore. Per me la pittura è importantissima: scaturisce dall’anima, dal cuore e dal mio essere.

Per concludere. Oggi tanti giovani musicisti si avvicinano al metal. Che consigli ti senti di dare?

Ogni fine settimana vado ad ascoltare giovani formazioni. Devo riconoscere che ci sono in giro musicisti tecnicamente validi e di qualità superiore rispetto agli standard dei miei esordi. Purtroppo però oggi molti si limitano a suonare in cover band e non si cimentano in composizioni nuove. Il mio consiglio è cercare di costruire sempre qualcosa di nuovo: nella storia della musica ci sono sempre stati grandi cambiamenti e ritengo che c’è ancora spazio per forme artistiche nuove. Ognuno però si deve impegnare seguendo una propria linea cercando di essere sempre credibile.