Coez, amo il cantautorato degli anni ’70

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E’ uno dei rappresentanti più amati e apprezzati del nuovo cantautorato italiano. Coez, con il primo album “Non erano fiori”, è entrato direttamente in top 10 della classifica ufficiale di vendita dove ha stazionato per 4 settimane consecutive. Il suo nuovo album è “Niente che non va”, pubblicato da Carosello. Un disco che conferma la versatilità dell’artista di Nocera Inferiore e romano d’adozione, che si distingue per testi innovativi, intensi e mai banali, e un sound differente. Il primo singolo è “La rabbia dei secondi”, in radio da qualche giorno, che sta già conquistando gli ascoltatori.

In questo tuo nuovo album riprendi il discorso cantautorale avviato con il precedente disco “Non erano fiori”. Questa volta però, e si evince sin dal primo singolo, sei passato dalle canzoni d’amore a temi di carattere sociale. A cosa si evince questo cambio di direzione?

Penso che il disco “strano” sia stato più il primo disco, visto che c’erano diverse canzoni d’amore, tanto che in qualche modo potrebbe essere definito un concept album. In realtà le cose che facevo in precedenza erano più orientale al sociale. Così ho iniziato a guardarmi in torno e sono arrivato a questo disco.

Nel disco c’è “Costole rotte”, brano che prende spunto dalla morte di Stefano Cucchi. Com’è nato questo brano?

Sono di Roma e quando è successo il fatto io mi trovavo proprio nella Capitale. Il brano non è proprio tutto su questo episodio, visto che ci sono state tante storie di questo tipo. Però quella di Stefano Cucchi è una vicenda che è uscita di più, anche perché sua sorella si è molto esposta sui media per far conoscere l’accaduto. Avevo già il ritornello in testa da un annetto. Non tratto mai quelle tematiche, perché sono molto delicate. Però il brano è venuto fuori naturale, con il dovuto rispetto. Sostanzialmente emerge il contratto tra una canzone per bambini ed una dal risvolto più amaro.

In quanto tempo hai realizzato il disco?

Alcuni ritornelli ce li avevo già da cinque / sei anni. La lavorazione effettiva del disco invece è durata all’incirca un anno, tra aprile 2014 e aprile 2015. Io non suono nessuno strumento. Lavoro però a stretto contatto con dei musicisti. In questo caso mi ha aiutato Stefano Ceri, un ragazzo di 24 anni, che viene dal rap e ha fatto anche il conservatorio, quindi conosce molto bene la musica. Questo è il suo primo disco ufficiale. Ho lavorato ore e ore tutti i giorni. Ci siamo impegnati affinché il disco fosse il più suonato possibile: una volta che inserisci uno Steinway in una canzone non puoi tornare al digitale. Devo dire che ho fatto un lavoro molto diverso rispetto alla produzione di dischi rap.

In “Niente che non va” c’è un esplicito riferimento a Rino Gaetano. Che cosa rappresenta per te questo artista? Che cosa ti accomuna alla sua musica?

E’ un artista che mi piace molto. Rino Gaetano è stato un cantautore particolare, perché più che una grande voce aveva uno stile riconoscibile, cosa che gli ha consentito di realizzare un cantato molto particolare. A mio avviso può essere considerato il primo rapper italiano: parlava di attualità, citava i nomi delle marche come nessuno ai suoi tempi, faceva critica socio-politica: se sei un rapper italiano la sua opera non può lasciarti indifferente. “Gianna” ai tempi era una cosa molto pop, e poi faceva anche pezzi più impegnati come “Mio fratello è figlio unico” e “Il cielo è sempre più blu”, che io cito nel pezzo “Niente che non va”. Abbiamo poche cose di cui andare fieri in Italia, ma quelle che abbiamo bisogna farle conoscere.

Provieni dal rap, anche se sin dal tuo primo lavoro hai intrapreso una svolta verso il pop ed altre sonorità. Che cosa rimane nel tuo stile di quel periodo? Come trovi l’attuale scena rap italiana?

Io provengo da un rap molto diverso da quello che c’è oggi in giro. Adesso il rap si è sposato con il pop. Se oggi dovessi tornare a rappare farei una cosa più antica. Sono infatti molto legato al rap americano degli anni ’90. Oggi mi tengo comunque molto informato sul genere, anche se non ho dei dischi attuali di riferimento rispetto ai miei tempi. Per conto mio mi diletto ancora a scrivere pezzi rap, così come continuo a collaborare con amici. Però io ho l’amore per il cantautorato, soprattutto quello degli anni ’70, ma con una chiave di scrittura che viene dal rap.

Ho notato che molte canzoni del disco giocano sui contrasti. E’ stata una scelta precisa?

Si, tutto il disco è pensato per contrasti. Anche nel brano con il testo più triste mi viene naturale lasciare l’ascoltatore con una sensazione positiva, come in “Buona fortuna”, brano che cita Antonello Venditti e prepara la chiusura malinconica della ballata “Le parole più grandi”. Ne “La rabbia dei secondi” tratto un tema negativo, ma per farlo arrivare in maniera meno pesante entra in maniera più allegra. La stessa cosa l’aveva sperimentata anche sul disco nel disco precedente con il brano “Siamo morti insieme”.

Visto il successo del tuo primo album, com’è cambiato il tuo rapporto con il pubblico? Sono previsti nuovi concerti?

Con “Non erano fiori” abbiamo lavorato molto. Ad esempio, su Facebook avevo 7 mila fan e alla fine di tutto il progetto sono arrivato ad oltre 140 mila. Adesso ci prepariamo all’instore tour. Poi faremo due date: martedì 8 settembre all’Estathé Market Sound di Milano con un’orchestra e altri colleghi come Ensi, Clementino e Ghemon. Domenica 13 settembre, invece, sarò a Roma sul Lungotevere per “Buon giorno entusiasmo”, il grande evento dedicato all’entusiasmo ideato da Nutella e che vedrà ospiti anche Elio e le storie tese e Daniele Silvestri. Un tour vero e proprio ci sarà più avanti.