Mario Iob: cantare e scrivere la salvezza e il dolore

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Mario Iob ha una voce vera e il viso scolpito dal vento, profondo, come la terra da cui arriva, il Friuli, dove cantare rock è confine, ma non limite. In trenta anni Iob ha conosciuto sogni americani e realtà locali, ma non ha mai perso la passione. Senza nostalgia, perché guardare oltre è già arte.

Raccontaci della tua infanzia e giovinezza, come avviene l’incontro con la musica e cosa scatta per decidere di viverla come arte e professione, e non solo come ascoltatore?
Il mio incontro con la musica è avvenuto nel ritrovarci in una cantina e provare a “buttare giù” qualche canzone. Erano tempi in cui la musica significava molto nella nostra vita e valeva per tutti quelli che parteciparono a quella band. Cominciammo ad uscire (avevamo sedici anni, tranne il bassista che ne aveva 18, la patente e l’auto) con un live nella palestra della nostra scuola.
Le tue prime band locali, le prime esperienze. Parlami dei primi concerti, di come ti poni con i compagni di band. Cosa ha funzionato e cosa no?
Dopo la prima esperienza con la prima band e le prime uscite in locali ebbi l’opportunità di conoscere vari musicisti. Feci particolare amicizia con un chitarrista, Federico e decidemmo di trovarci. Reclutare un bassista e un batterista fu cosa facile. All’epoca tutti suonavano con tutti. Nacque il progetto “Old Houses Demolition”. Nella scena musicale del triveneto diventò presto qualcosa di importante, perché avevamo tutti una buona attitudine nello stare sul palco e perché proponevamo una musica immediata e violenta che si collocava bene nella scena musicale di allora. Suonavamo molto, anche troppo; ma come per quasi tutti non ci facevamo il becco d’un quattrino e decisi che era arrivato il tempo di lasciare. Dopo un mese ricevetti la chiamata da parte di una band: gli “Overage”. Fu una folgorazione e dopo un mese di pausa avevo di nuovo il microfono di fronte. Con gli altri membri della band, soprattutto in quegli anni, si sviluppava un forte senso di fratellanza e di tolleranza. Stavamo sempre insieme e come succede sempre si litigava, anche furiosamente; ma poi si saliva sul palco e sul palco passa ogni rancore. Con quella formazione partecipammo per due anni consecutivi al concorso nazionale di musica rock che si teneva a Nocera Umbra; il primo anno vincemmo il premio della critica, il secondo il concorso.
Vivi la stagione del passaggio tra anni ’80 e ’90, per alcuni la fine di un certo tipo di rock spensierato, per altri la rinascita di un modo di concepire la musica come energia e rivoluzione. Tu da che parte stai e cosa hai raccolto da quegli anni?
Con il mio ritorno al rock, dopo anni di studio e canto lirico, ho fondato una band che si chiama Dead Poets Society. Già nel nome mettevo l’intenzione di impegno nei testi. Il Rock “spensierato” credo di non averlo mai ascoltato, tantomeno prodotto. Erano anni potentissimi, nel bene e nel male e hanno lasciato in me la necessità di “parlare” con i testi. Di comunicare la possibilità di vedere e tenere conto di più condizioni di vita. La rivoluzione, per come l’ho sempre concepita, anche con i miei recenti e attuali compagni di avventura, è più “spirituale” che da guerriglia. Non ho mai avuto l’intenzione di scrivere testi fortemente politicizzati come i Rage Against the Machine o band del genere; ma quella di cercare la motivazione per mettere in discussione quello che stiamo facendo agli altri e a noi stessi certamente sì.

C’è poi il volo in America, alla ricerca di cosa? Perché l’America e soprattutto quale America? (Qui per favore approfondisci bene: quanto tempo sei rimasto, dove, esperienze, incontri, traguardi, delusioni…).
Per mezzo di YouTube mi sentirono in California e dissero che “se fossi capitato da quelle parti” sarebbe stato interessante suonare insieme. Feci in modo di esserci: mi comprai il biglietto e andai. Lo feci accadere. Insieme a Deanie Wood, Robin Knuckles, Sissy Gilio, Benjamin Tew per tre mesi suonammo in tutta la California centrale (Los Angeles, Newport Beach, Corona del Mar, Long Beach, ecc) portando tutti i nostri stili estremamente diversi tutti insieme. Una esperienza che mi ha portato una cosa difficilissima da raggiungere in Europa: l’umiltà. Il fatto che “tutti ci stiamo provando” e che per questo tutti vadano rispettati. Sai?! Succede che passeggi a Venice e un homeless canti per strada e che ti emozioni come nessuno possa fare alla radio o dai palchi. Ed è lì, per strada. Mi ha fatto riconsiderare tutto; dal talento al concetto di bellezza e mi ha fatto ricordare con una sberla in faccia cosa sia la musica: resistenza e sopravvivenza.
Poi decidi di tornare in Italia? Quando e perché? E che Italia trovi, musicalmente e socialmente?
Per la prima volta mi sono trovato davanti alla possibilità di restare permanentemente lì. Andava bene. Pagavano bene e l’idea di un italiano (che nell’immaginario americano é piccolo e moro) alto, biondo e con gli occhi chiari incuriosiva parecchio e mi faceva fare un sacco di soldi con le mance. Ma mio figlio era piccolissimo e mi mancava da pazzi e insieme ad altre motivazioni mi fece tornare. L’Italia era necessariamente (come sempre quando torni) la stessa, ma era cambiata ai miei occhi. Per i motivi di cui già ho detto mi sembrava ancora più malata, musicalmente. E’ improbabile sentire suonare Cover bands, in California… e le “Tribute” nemmeno esistono. Manca il messaggio. Manca la volontà di resistere e spesso quella di esistere. Mi sembra che tutto si risolva in un reciproco disinteresse tra tutte le parti che chiamano “scena musicale”. Una guerra in cui perdono, singolarmente, tutti.
Non c’è mai stata in me, lo confesso, una grande ambizione d’arrivare al successo (se ci penso non so nemmeno esattamente come definirlo, il successo), ma solo il bisogno intimo di espressione. In linea teorica mi basterei, ma non esiste arte che prescinda dagli altri. E’ la comunicazione con la sua forza, intensità e potere terapeutico che mi interessa. Va da sé che questo comporta essere dei “puristi” e quando mi e ci è stato proposto di “cambiare” la formula, per arrivare ad un pubblico più vasto (cantare in italiano; chiedere favori a band più famose; addirittura pagare per partecipare a concerti importanti o essere recensiti in una certa maniera) ci siamo sempre rifiutati. Sono comunque arrivato negli anni e con i diversi progetti (quello solista incluso) all’immaginario delle persone . Mi “ringraziano” per la mia musica e per le mie parole, quando mi incontrano. Questo è “successo”, per quanto mi riguarda. Essere stato utile a qualcuno quando serviva; avere dato la carica quando era necessaria; aver fatto commuovere quando toccavo le corde giuste. Questa è la mia idea di “successo” e ne sono, in una certa misura, soddisfatto.
La tua più grande soddisfazione e la tua più grande delusione, artistica, ma non necessariamente?
Mettiamola così: se fosse una decisione da prendere oggi, non sarei tornato in Italia.
Amo gli italiani, ben inteso; ma gli americano hanno una forte empatia ed era molto più semplice per me arrivare con la voce dove volevo arrivare. Questa è chiamiamola, delusione. Per quanto riguarda la mia soddisfazione più grande, credo debba ancora arrivare. Alla fine l’artista è una persona sola: anche se lavora di squadra è solo, soprattutto se scrive, compone, ed è il referente a cui la gente chiede emozioni. Ti senti solo? Sul palco non mi sono mai sentito solo e oggi tantomeno: ho avuto la fortuna di incontrare sempre almeno alcuni membri della band che in qualche modo riconoscevano questo valore e ne rendevano merito. Non si può pretendere che valga per tutti. Magari è un ”bisogno di essere visti” un po’ infantile, ma è purtroppo necessario per non sentirsi ai margini, pur essendo al centro.
In tempi più recenti arriva la poesia, la pubblicazione di due libri, che ampliano e completano il tuo percorso, visto che le proponi accompagnate da canzoni, spesso cover rivisitate. Come arriva a bussare da te la poesia?
Da quando ho cominciato a scrivere i testi delle canzoni ho cominciato a scrivere “poesia”. Ho sempre messo una grande attenzione in questo, ascoltandomi per bene e provando a riportare in parole quello che sentivo. Le Edizioni La Gru mi hanno proposto di pubblicarle e ho accettato, ma in sostanza, non è cambiato nulla nel mio metodo compositivo. Possiamo dire che il successo che di fatto hanno avuto i miei libri mi hanno reso più “credibile”. Quando una parola è stampata, diventa “dogma” e ora, lo noto, qualche attenzione in più nell’”ascoltare” anche le parole, oltre che la voce la gente la ci mette.

Nelle recensioni che ti riguardano parole come dolore, rancore, solitudine, appaiono spesso. È davvero questo il “mood” che vuoi trasmettere?
No. E’ ovvio che, in una certa fase sia musicale che letteraria questi erano realmente i miei sentimenti dominanti, ma socraticamente, eravamo ancora alla fase ironiaca in cui sentivo il bisogno di “bruciare” questo stato d’animo per evolvermi. Con gli attuali progetti musicali (God Has Gone si è aggiunto al progetto Dead Poets Society) e con Pesci su Marte credo di aver cominciato la fase della maieutica. In fondo, quello che la visione di me vorrei passasse, è che “si può fare”.
Perché il tuo blog non è aperto a tutti? Temi i commenti negativi o perché?
Ho chiuso il blog per un fatto “energetico”. Lo stesso motivo per il quale sono irremovibile sui cachet quando suono (a meno che non sia per beneficenza). Metto in campo molto di me quando canto e quando scrivo. Parlo della mia vita, anche nelle fasi più dolorose e intime. C’è gente che paga per ascoltarmi e leggermi. Io vado da loro quanto loro vengono da me. Se non avessi in cambio questo tipo di energia sarebbe “darsi in pasto” a tutti, anche alle persone inconsapevoli di chi stanno o ascoltando o leggendo. A lungo andare è cosa che svuota, porta insoddisfazione e frustrazione ..
Come vedi la scena musicale attuale, intendo oltre i contenuti e gli stili. Pensi che possa essere ancora una professione quella del musicista o visti lo scarso giro di denaro, tutto verrà relegato alla passione e al dilettantismo, mascherato bene da professione?
E’ sempre un fatto energetico. I soldi ( e di conseguenza l’interesse e per gli artisti la possibilità di CONTINUARE ad esprimersi). Se la situazione resterà questa, non c’è spazio per i professionisti e non ci sarà mai spazio per loro. Il giro di denaro io credo ci sia, ma è destinato al “mordi e fuggi”; agli imitatori di altri. Per quello che ho potuto vedere, non c’è nemmeno “passione” in quello che viene portato sul palco. Esibizionismo, egocentrismo, ma non passione. In ogni caso manca sempre il “messaggio”, il “pensiero” e questo ai miei occhi fa di qualsiasi presunto artista un dilettante.
Cosa dobbiamo aspettarci dal futuro di Mario Iob e cosa vorresti fare che temi non riuscirai a raggiungere?
Ho fatto un patto con me stesso nel non pormi più aspettative, Gianni. Ho cocciutamente resistito ai cambiamenti, cambiando senza cambiare. C’è un prezzo da pagare per questo. Spero mi facciano lo sconto, ecco.Una delle mie intenzioni musicali era quella di fare più esperienze possibili, anche collaborando con altri musicisti ed è il motivo per il quale nasce il progetto “God Has Gone” che, a parte lo “zoccolo duro” è aperto a tutti quelli che vogliono partecipare e lo sto facendo. Non ci penso, Gianni, mai: come dico in una mia canzone “la creatività è un mostro ingordo che divora ogni parte di te”. Ho smesso di pensare a cosa porti, in termini di risposta, dagli altri. Sarebbe incoerente porsi il problema.