Non solo AC/DC! Federico Guglielmi ci parla del suo ultimo libro “Be My Guru”, dedicato alla scena rock australiana!

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Uno dei più importanti critici musicali italiani, Federico Guglielmi, prima o poi doveva confrontarsi con la scena rock australiana, da lui narrata, in centinaia di articoli, sin dagli albori degli anni ’80. Il momento è arrivato con “Be My Guru”, un libro di 360 pagine, fresco di stampa grazie a Crac Edizioni. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare qualcosa di più. Ed infatti ci ha svelato che sta scrivendo…

Ciao Federico, e ben ritrovato. Un libro sul rock australiano (e neozelandese), una scena riconosciuta da tutti ed ammirata da molti. Ma tu come ti innamori del rock australiano? E cosa ci trovi di speciale?

Fino all’inizio degli anni ’80 conoscevo giusto Saints, Radio Birdman e Church, anche perché i dischi di tutte le altre band underground in Europa proprio non si vedevano. Poi sono emersi i Birthday Party, i Go-Betweens, i Triffids, i Celibate Rifles… e ancora dopo Hoodoo Gurus e Died Pretty; attorno al 1984 la scena è letteralmente esplosa e da lì in avanti trovare materiale è diventato più facile. Rimasi da subito colpito dalla marcata personalità dei gruppi, dalla qualità delle loro produzioni e dalla purezza che sembrava trasparire dalle loro proposte musicali. C’era di tutto e di più e quasi tutto era buono se non, più spesso, ottimo.

Nella prefazione spieghi che non ti sei occupato di punk, metal e rock da classifica. Quindi cosa resta? Lasciando quindi fuori anche gli AC/DC.

Del punk mi sono occupato a livello di prima scena, quella dei ’70, perché tutto è nato da lì. In pratica, ho preso in esame tutta la scena più o meno underground di orientamento rock’n’roll: dal classico sound in stile Detroit al garage fino alla psichedelia, al power pop, al folk-rock, al blues rivisitato. Una “scena” precisa, ovvero quella che ruotava attorno a etichette come Citadel, Waterfront, Greasy Pop, Au-Go-Go eccetera.

Hai assemblato materiale scritto in decenni di collaborazioni giornalistiche, naturalmente con le dovute modifiche e migliorie. Ma davvero hai tutto conservato: articoli, giornali? Deve essere un archivio gigantesco!

Gigantesco è in effetti la parola giusta. In quarantatré anni ho pubblicato moltissimo e, sì, ho conservato tutto, su carta e/o in formato digitale. A differenza di molti miei colleghi, sono sempre stato un buon archivista, in assoluto e non solo di me stesso.

Rileggendo i testi scritti anni fa, hai trovato tuoi giudizi da rivedere? Sia in negativo che in positivo? O pensi che tutto sommato recensioni e critiche siano ancora credibili?

Mi sono stupito di qualche giudizio un po’ ingeneroso, ad esempio, del secondo e del quarto album dei Died Pretty, ma fondamentalmente mi sono trovato d’accordo su quello che scrissi illo tempore. Se avessi ritenuto che qualcosa non fosse stata più credibile, non l’avrei recuperato: ribadire eventuali sciocchezze, in un contesto così, non sarebbe stato un buon servizio per il lettore.

I cinque dischi di (questo) rock australiano che tutti quelli che amano il rock in generale debbono ascoltare e perché.

Solo cinque, eh? Allora… “I’m Stranded” dei Saints perché è uno dei dischi punk per eccellenza, “Radios Appear” dei Radio Birdman perché da un simile mix di MC5 e Stooges non si può prescindere, “Stoneage Romeos” degli Hoodoo Gurus perché il suo power-power pop è in ogni senso superlativo, “Free Dirt” dei Died Pretty per la sua originalissima fusione di punk’n’roll, post-punk, Velvet Underground e psichedelia. Infine, l’antologia “Kaleidoscope World” dei Chills (sì, nel libro si parla anche di Nuova Zelanda), perché il loro psycho-folk-pop è pura magia.

Oltre alla scena australiana, c’è qualche area geografica, meno nota, che pensi abbia prodotto rock indipendente di qualità, pur derivativa, ma con una propria identità.

Direi la Svezia anni ’80, una scena stilisticamente affine a quella australiana coeva anche se quantitativamente meno ricca. Gruppi come Nomads, Wayward Souls, Watermelon Men o Creeps, per citare i primi che mi vengono in mente, erano dinamite.

Senza svelarci niente in particolare, puoi darci qualche indizio del tuo prossimo progetto letterario. Non lo so, ma so che c’è, visto che sei instancabile?

Ma no, perché non svelare niente? Sto scrivendo la biografia ufficiale dei 24 Grana, ho in mente un progetto sul combat-folk italiano dei ’90 e lentamente ma inesorabilmente sto raccogliendo materiale per una sorta di mia autobiografia musical-professionale che farei uscire nel 2027, per il mezzo secolo di carriera. Se ci arrivo, ovviamente.

Come si fa ad essere innamorati del rock alla tua età, direi alla nostra età?

Ah, di indole sono fedele alle mie passioni, e questo di sicuro c’entra. Certo, non lo vivo con la stessa intensità di un tempo, credo sia inevitabile, ma la colpa non è del rock’n’roll, bensì di com’è cambiato tutto quello che ha attorno: la musica liquida, il mercato del disco fisico, l’ambiente giornalistico o pseudo tale, i social e tutto il resto. Mi ritengo comunque fortunatissimo.

Con questa ultima risposta Federico apre scenari molto interessanti, materiale per un una nuova intervista. Ma non aspetteremo il 2027, questo è sicuro. Intanto il mio suggerimento è di procurarvi “Be My Guru”, un compendio meraviglioso e dettagliato per scoprire, per avvalorare il sottotitolo del libro: i magnifici anni ’80 del rock australiano e neozelandese.

Federico Guglielmi: classe 1960, romano e romanista, ha alle spalle più di quarant’anni di professione nel campo del giornalismo rock (e dintorni). Ha fondato e diretto il mensile Velvet e il trimestrale Mucchio Extra, è stato caporedattore e redattore de Il Mucchio Selvaggio, ha scritto per Ciao 2001, Rumore, Rockerilla, Rockstar, bassa Fedeltà e varie altre riviste. Dal 1999 è responsabile delle pagine musicali di AudioReview; inoltre, collabora stabilmente con Blow Up, Classic Rock, Billboard Italia e Vinile. Ha pubblicato una trentina di libri, è stato conduttore/autore di varie trasmissioni radio della RAI tra le quali Stereonotte e Strereodrome, ha firmato la produzione artistica di ventidue dischi, ha curato alcune decine di ristampe o lavori con materiali d’archivio e ha festeggiato il sessantesimo compleanno esordendo nel ruolo di cantante punk con un 7″EP a nome Freddie Williams and Plutonium Baby. Il suo L’Ultima Thule, ha vinto nel 2014 e nel 2017 – l’Indie Blog Award per miglior blog musicale. E molto altro.