Lorenzo Del Pero – Nato il giorno dei morti (Vrec, 2023)

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Artista che nulla nasconde della sua anima scorticata e che soprattutto nulla concede all’ascoltatore, in termini di facilità di ascolto, il giramondo Lorenzo Del Pero anche in questo suo terzo album in italiano, nelle vesti, semplifichiamo per comodità, di cantautore, dimostra che esiste una via scomoda per essere narratori di pulsazioni che sono il frutto di ferite, graffi e desolazione dell’anima e di un vivere, forse stanco, ma che se genera arte di questa altezza, allora che sia benvenuto il dolore.

D’altronde non potevamo certo aspettarci ruffianate da talent show del sabato sera per uno che ha intitolato il disco precedente “Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio” e che per stendere un’ulteriore cappa nera, oggi si presenta con “Nato il giorno dei morti” corredato da un’inquietate, ma meravigliosa copertina, opera di Leonardo Bani.

In dieci brani Lorenzo ci accompagna nel suo viaggio nell’ombra, dove la luce filtra timida, e ci regala suoni asciutti, cantati nervosi e nevrotici, ma da cui traspare un desiderio, quasi una supplica di bellezza che commuove.

Ascoltate “Di troie e di cani”, “Il teatro dei vinti”, “Deponi le armi soldato” e la title track, dove la voce di Lorenzo, acuta e sofferente scava spazi ampi, con melodie contorte, dove le parole sono scandite per aggiungere maggior forza al loro peso specifico. E anche dal punto di vista dei suoni la crescita è enorme e non a caso la produzione è affidata ad una coppia di assi come da Marco Olivotto (Estra, Giulio Casale) e Flavio Ferri (Delta V, Gianni Maroccolo).

Il vero pregio di Lorenzo Del Pero è di porre le canzoni al centro del suo lavoro, di chiedere all’ascoltatore uno sforzo, un impegno fatto di concentrazione che, dopo qualche ascolto, diventa piacere, perché entrare nella complessa poetica della sua arte può tramutarsi in un viaggio di crescita.

In un mondo che predilige la velocità, la conquista in pochi secondi, c’è bisogno di dischi come “Nato il giorno dei morti” che ci ricordano che non tutto è colorato di finta banalità e citare, almeno come ispirazione, nomi come Piero Ciampi e Luigi Tenco, Fabrizio De André e, restando ai giorni nostri Paolo Benvegnù, lo dico senza timore, non è sacrilegio. E poi uno che firma un pezzo audace come “La culla della civiltà”, merita rispetto a prescindere.

Forse, come canta in uno dei suoi brani migliori, è solo “Il sogno di un profeta”, ma sperare che questo album possa scalfire l’indifferenza e la superficialità di chi ascolta solo nomi noti, deve diventare più di un sogno.

Originale, colto, raffinato e potente, un album bellissimo.